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Non possiamo scappare da Hannah Baker

13 Reasons Why è una serie tv che tutti dovrebbero guardare. Tutti nessuno escluso. Il motivo è semplice, ma allo stesso tempo tutt’altro che scontato. Ovviamente le tematiche trattate risvegliano in noi un senso di inquietudine troppo spesso assopito, mettono a dura prova la nostra sensibilità, e in certi casi ci possono persino spingere a riflessioni più o meno accurate su argomenti indubbiamente delicati. Tuttavia questa nostra apprensione ha una data di scadenza. Ciò che ci ha fatto in certi casi persino commuovere, d’un tratto ci abbandona, e ci riporta al punto di partenza, dove nella maggior parte dei casi, anche se involontariamente, tendiamo ad allontanare tutto ciò che può mettere in crisi la nostra coscienza. Naturalmente stiamo parlando di un efficiente meccanismo di difesa capace di tenerci a galla. Un complicato automatismo utile per far sì che possa essere difficile abbandonarsi al nichilismo, all’autodistruzione e a un mal di vivere sempre più prorompente. Perciò il tema del suicidio, in particolare, non può essere il motivo alla base per cui è necessario concedere tredici ore della propria vita per guardare Tredici. Il suicidio in questo caso non è altro che una diretta conseguenza di un incespicata matassa di cause concatenati. Il vero motivo è uno: Hannah Baker.

Hannah Baker

Molti potrebbero nutrire giustificati dubbi su ciò. Poiché nel corso della serie vengono proposte innumerevoli sfaccettature tipiche del disagio giovanile. Per alcuni, quindi, il vero e indiscusso punto di riflessione dal quale si diramano le varie vicende che in qualche modo accomunano tutti i personaggi.

Ma non può essere così. Come già detto, la nostra sensibilità per certe realtà spesso trova rilevanza a seconda del nostro stato d’animo. Quindi in certi casi può anche essere flebile come una tiepida brezza.

Da Hannah Baker, invece, non si può scappare. Sapete perché? Perché Hannah Baker siamo noi.

Hanna Baker è una nostra amica. Una nostra vicina di casa. Una nostra compagna di classe. Nostra sorella. Ma nella maggior parte dei casi impersonifica ciò che siamo stati anche se solo per qualche istante. Lei può e deve essere il vero motivo per cui Tredici debba diventare la serie tv che tutti dobbiamo guardare. Perché grazie a lei per la prima volta non siamo tempestati da sterili pubblicità progresso contro il disagio adolescenziale, ma al contrario lo viviamo in prima persona. Attraverso i suoi occhi siamo capaci di provare il classico dolore cosmico che si prova in adolescenza. Un dolore difficile da comparare con altri tipi di sofferenze. Può sembrare esagerata quest’affermazione, ma fidatevi non lo è, per il semplice fatto che l’essere umano non si sentirà mai solo, incompreso e abbandonato come nell’adolescenza.

Hannah attraverso le sue registrazioni ce lo spiega magistralmente. Chiarisce quale sia la vera natura di piaghe sociali come bullismo, violenza sessuale e di qualsiasi altro genere. E non lo fa con arrovellamenti di matrice moralista, ma in maniera semplice e diretta. Tanto che possiamo sentirlo e provarlo come se fossimo direttamente interessati. La sua sofferenza non è mai banale. E’ genuina. Ma soprattutto è individuale. E sebbene lo schermo televisivo in qualche modo abbia il compito di filtrare e rendere più sopportabili gli avvenimenti, non riesce a lenire l’angoscia che Hannah Baker cova dentro di sé fino ad arrivare al punto di non ritorno.

Hannah Baker

Seneca disse che per imparare a vivere fosse necessaria una vita intera, così come per morire. Ma aggiunse che per mettere fine alla propria vita si impara in qualche istante. In un batter di ciglia. In una frazione di secondo che rende la vita d’un tratto insopportabile. Una porzione di tempo che racchiude in sé la lucidità che mai si sperimenterà nel corso della vita. Poiché per uccidersi è necessario essere lucidi, e Hannah questo lo sapeva. Recise le sue vene consapevole che la solitudine, la frustrazione, il senso opprimente di impotenza, la delusione e l’apatia, non avrebbero più concesso adito alla vita.

Hannah Baker ci insegna quanto sia tremendamente facile smettere di vivere. Quanto sia facile concedersi all’annientamento, in un contesto sociale inefficiente, che volta le spalle a chi urla sommessamente per chiedere aiuto. Questo dunque ci dovrebbe far riflettere ulteriormente. Quanto siamo complici in una realtà del genere? Quanto possiamo sentirci parte di un progressivo disinteresse generale? Porsi queste domande è un ulteriore motivazione per guardare 13 Reasons Why. Semplicemente perché potranno trovare risposta. Perché garantisce una spiegazione esaustiva a una triste e delicata condizione sociale che riguarda i giovani ai giorni nostri.

Riusciremo dunque a prendere atto che, pedagogicamente parlando, siamo tutti complici di un suicidio. Non si avranno mai le mani sporche di sangue, ma la nostra coscienza cesserà di essere immacolata. Poiché che ci piaccia o no siamo tutti attori attivi in scena in uno spettacolo a tratti drammatico. In quella che è una fitta rete di interazioni sociali nella quale un individuo trova dignità. Dove ognuno di noi ricopre un ruolo dal quale non si può prescindere.

Hannah Baker esiste veramente, ed è una vittima di un mancato funzionamento degli ingranaggi sociali. Per questo tutti noi siamo complici della sua morte. Badate bene, complici non colpevoli. Saremo colpevoli se decidessimo di perpetuare nel mal celato disinteresse qualora Hannah Baker morisse di nuovo. Fino ad allora avremo il compito di rendere condivisibile la tristezza di chi spesso non riesce a tornare a galla con le proprie forze.

Luigi Citroni 

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