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Lettera di Walter White a Hank Schrader

Venti giorni nella casetta sperduta tra la neve. Venti giorni di colpi di tosse sempre più rauchi, che torturano i polmoni come se potessero grattare via il cancro; venti giorni di silenzio dopo il rumore ininterrotto dei mesi passati. In un posto del genere si può solo stare seduti ad aspettare l’arrivo di una bufera, del tizio che consegna le provviste, della polizia che ti ha scoperto o di un proiettile sparato nella schiena…  Così questa stanza buia mi ha costretto a fare due cose per la prima volta: cadere in preda a una fobia, e riflettere sulla tua morte, Hank Schrader.

Una fobia è un timore ingiustificato; è irrazionale e perciò stupida, e grazie al cielo Walter White non è il tipo: i motivi per cui ho avuto paura sono sempre stati fin troppo reali, non avrei davvero potuto confondere la sensazione di stare per essere ucciso oppure di perdere le persone amate con qualche paranoia psicosomatica. Le fobie sono per chi non ha mai dovuto correre per salvare se stesso e gli altri.

Eppure il rifugio nella neve è disumano. Necessario e tuttavia tremendo.

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Lettera di Walter White a Hank Schrader

Il limbo dei peccatori, Hank: un luogo dove il criminale e l’uomo che non può mostrarsi al mondo trovano l’ultima stazione disposta a far passare il loro treno; c’è il binario per la probabilità di essere rintracciati, quello per la capacità di ognuno di noi di resistere a lungo senza contatti con l’esterno, e sì, anche quello su cui è concesso indugiare se si vuole essere travolti.

E io sono Heisenberg, sono ancora “il pericolo”, però il tempo riesce a togliermi la ragione. Dove ha fallito persino Gus Fring, sta trionfando questo alternarsi del giorno e della notte: luce grigia smorta sopra a semplice buio, ore che da qualche altra parte segnano il ritmo delle vite e che qui non scorrono nemmeno. Tempo che non so come spendere.

Uno che sa di avere una malattia mortale non dovrebbe annoiarsi.

Un alito di gelo venuto da chissà quale spiraglio (mi ripeto di essere in una normale casa e non in una fortezza) fa deviare la fiamma del fuoco. Da lontano mi sembra di sentire un grido.

La tua morte è stata strana, Hank, e tu sei un idiota: non perché Heisenberg ti ha imbrogliato per una quantità di mesi imbarazzante per un poliziotto, ma perché in fin dei conti a te, di Heisenberg, poteva non importare niente.

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Potevi lasciarlo marcire nel suo cumulo di metanfetamine e ridere di lui mentre nuotava nei soldi che guadagnava: sì, perché Paperon de’ Paperoni fa ridere quando si tuffa nella piscina di monete, povero scemo.

Potevi restare comodo a guardare l’impero della Blue Sky cadere pietra dopo pietra (sarebbe accaduto come accade sempre, e lo sapevi), potevi essere lì a vederlo raso al suolo, a guardare quei piccoli drogati che lo sostenevano disperdersi e fare i cani randagi qua e là, in attesa del nuovo dio degli stupefacenti che non avrebbe tardato ad arrivare: hanno avuto l’eroina, la bella Mary Jane, l’ecstasy e ora la meth, e per te sono stati solo scartoffie sulla scrivania.

Non avevi alcun bisogno di Heisenberg, né di eliminarlo dal giro e nemmeno di ripulire le strade dal suo prodotto; non avevi polmoni in fiamme che ti strozzavano la gola togliendoti l’aria, non dovevi sfidare il cancro per resistere il tempo necessario ad assicurare un futuro alla tua famiglia, non possedevi un’ambizione sfrenata che ti rendeva dipendente da qualcosa che non riuscivi a controllare.

E, detto tra noi, non avevi neppure un genio che ti costringeva a dimostrare sempre più a te stesso di essere diverso.

Però avevi anni da passare sotto il cielo del Nuovo Messico, sulla veranda di casa, aspettando quella pazza di tua moglie con una birra in mano. Tu e i tuoi dannati minerali da mettere in vetrina con la soddisfazione di un vecchio collezionista.

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Hank Schrader e sua moglie

Avevi ciò che Heisenberg non ha mai avuto: lo scopo della tua vita era essere felice, il suo era correre veloce verso la fine. Dovevi soltanto mandarlo al diavolo.

Invece hai scelto di continuare, perché sei un eroe e gli eroi sono la cosa peggiore di questo mondo. Folli che credono che valga la pena di distruggersi per un’idea, che con le loro gesta dementi complicano quel che è già difficile; che non hanno capito che siamo tutti in mutande nel deserto, terrorizzati dal pericolo di essere catturati dalla polizia o da chiunque altro.

Sei un eroe e quindi sei morto, Hank Schrader.

E non parleremo mai più tranne che nei miei pensieri, nei luoghi del cervello che, ho letto una volta, certi studiosi chiamano celle della mente; ne ho una che assomiglia allo spazio fuori casa, alle sedie sdraio attorno alla piscina e al barbecue della domenica: là ti invito quando voglio, e so che non puoi rifiutare.

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Hank Schrader

– Ti andrebbe un bicchierino di Bourbon, Hank? –

– Volentieri vecchio mio, grazie. Quand’è stata l’ultima volta che ne abbiamo bevuto? –

– Uno buono? Ah, credo fosse il decimo compleanno di Junior

– Superalcolici a una festa di bambini? Che diavolo Walt, siamo proprio degli incoscienti! –

Rido: – Già. Soprattutto io, che sono suo padre

– E io invece? Voglio dire, sono un poliziotto: dovrei dare il buon esempio! –

Rimaniamo in silenzio per un po’.

– Hank… Non volevo che finisse così

Sorseggi il liquore, non parli.

– Heisenberg e il resto, beh, non avevano nulla a che fare con la famiglia: era una specie di vita parallela, non… Ho cercato con tutte le mie forze di tenervi lontani da quella vita. Non ci sono riuscito. Avrei dovuto immaginarlo –

Faresti bene urlare che non è vero, che non ho mai tentato di proteggervi perché se vi avessi amati non vi avrei messi in pericolo fin dall’inizio; faresti bene ad alzarti e prendermi a pugni, come quel pomeriggio nel garage, perché Hank si comporterebbe in questo modo. Ma sei il frutto del mio senso di colpa, e taci.

Ti vedo svuotare il bicchiere e lasciare la stanza.

Mentre io, purtroppo, dalla mia non posso uscire: la neve ha bloccato tutto quanto.

Adesso mi viene in mente il finale dei Dubliners di Joyce:

Un leggero picchiare sui vetri lo fece girare verso la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, cadere obliquamente contro il lampione. Era tempo per lui di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava in tutta l’Irlanda. La neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del solitario cimitero sulla collina dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti

Lettera di Walter White a Hank Schrader
Lettera di Walter White a Hank Schrader

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