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#VenerdìVintage – Ho rivalutato il finale di Lost

Il finale di Lost ha fatto discutere per anni: i motivi sono legittimi, ma è anche lecito cercare di capire come si è arrivati a quella conclusione.

Sono passati circa 6 anni da quando è andato in onda l’ultimo, discusso, amato ed odiato finale di Lost. Nella maggior parte dei casi, le reazioni sono state tendenzialmente negative, sia perché inaspettato per alcuni, sia perché di difficile comprensione per altri.

Sulla difficile comprensione non ci piove: il finale di Lost merita delle spiegazioni per essere capito e, bisogna aggiungere, la sequenza di immagini con i resti dell’aereo sulla spiaggia non avevano fatto altro che creare confusione.

Cerchiamo dunque innanzitutto di spiegare come è finita una delle serie più influenti e ben fatte dell’ultimo decennio, di evidenziare gli innegabili problemi logico-funzionali, e soprattutto di capire perché il finale scelto non è stato poi così male.

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Dunque la strada che conduce all’ultimo episodio vede i filoni narrativi tutti in sospeso: sull’isola, Jack è diventato il nuovo Jacob e deve a tutti i costi impedire che l’Uomo in Nero (nelle sembianze di John Locke) la distrugga e, soprattutto, che la lasci.

Per entrambi, la chiave di volta potrebbe essere Desmond; inoltre, quest’ultimo è l’elemento costante che collega il mondo dell’isola a quello dei “flash-sideways”: infatti, in quello che crediamo sia un mondo alternativo, Desmond sta completando la sua opera di riunire tutti i personaggi in modo che possano ricordare la loro vita sull’isola.

A dir poco toccante è il percorso dei personaggi nel presunto mondo alternativo, come emozionanti sono i momenti in cui i personaggi si ricordano dei loro trascorsi sull’isola (un gesto, un tocco, una frase): arrivano tutti in una chiesa, ma Jack, il vero salvatore che nella realtà dell’isola aveva ucciso l’Uomo in Nero e messo fine alla distruzione di tutto, non riesce ancora a ricordare tutto, e per farlo ha bisogno di toccare, nel retro della chiesa, la bara del padre.

Ed è lì che ricorda: proprio mentre sull’isola si appresta a morire (in una perfetta circolarità di chiusura dell’occhio che invece aveva aperto nella primissima puntata, nella stessa foresta di bambù), capisce che la realtà che noi abbiamo considerato fino a quel momento alternativa invero era solo un luogo, senza tempo, in cui i naufraghi erano riusciti a ritrovarsi prima di avviarsi verso l’aldilà.

Si badi, l’accezione “senza tempo” è fondamentale: non significa che quelle persone nella Chiesa siano morte tutte nello stesso momento. È il padre di Jack, Christian, ad essere molto chiaro in merito:

“Tutto quello che ti è successo è reale”

“Ma allora sono morto?”, chiede il figlio

“Tutti moriamo, in qualche momento, figliolo”.

 

Questo mette ben in chiaro che la realtà e gli eventi dell’isola si sono tutti verificati, che la linea temporale di morte è sempre stata valida (Shannon è sicuramente morta prima di Sayid) ma, essendo quella chiesa privata della dimensione temporale, non importa la simultaneità della morte.

Quello che conta, come in generale in Lost, è la condivisione dell’esperienza, la capacità di trovare il filo che unisce tutti.

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Bene, questo è quello che abbiamo visto e questa è l’interpretazione del sottoscritto ma soprattutto degli sceneggiatori Lindelof e Lieber.

I problemi, tuttavia, oggettivamente rimangono e anzi forse aumentano; infatti, se caratteristica di Lost è sempre stata quella di non rispondere (volontariamente e non) a determinati quesiti, i salti di logica erano stati più o meno sempre rispettati.

Ed è proprio sul finale di Lost che è avvenuto qualcosa che ha segnato il netto passaggio dalla fantascienza alla fantasia: il presunto mondo parallelo.

Da quel che si evince all’inizio della sesta stagione, l’esplosione della bomba che impedisce la costruzione del Cigno avrebbe creato un mondo alternativo in cui l’aereo non cade e, soprattutto, i personaggi hanno vite diverse (nella maggior parte dei casi più felici e migliorative) rispetto a quelle che abbiamo conosciuto.

L’attuale (fanta)scienza non esclude l’esistenza di mondi paralleli, che si creerebbero ogni volta che compiamo una precisa decisione o ogni volta che, paradossalmente, torniamo indietro nel passato cambiando la storia (il paradosso del nonno e le varia soluzioni).

È ben logico rimanere di stucco quando si comprende che in realtà quel mondo non era affatto alternativo, ma un luogo senza tempo in cui le anime dei naufraghi riescono ad incontrarsi per “partire” insieme.

Come è razionalmente accettabile una cosa simile?

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Il punto è proprio questo: non è accettabile, razionalmente.

Ed è qui che forse la grandezza di Lost emerge con forza anche nel finale; tutta la serie gioca infatti sulla contrapposizione tra la razionalità (Jack) e la fede (John), e ogni finale di stagione, attraverso i suoi misteri risolti e non, lancia un chiaro messaggio: è la fede la strada da seguire.

Il finale è la massima espressione di questo concetto: ai protagonisti, come agli spettatori, è di fatto chiesto un vero e proprio atto di fede.

Nella nostra vita di tutti i giorni, si parla di miracolo quando non si riesce scientificamente a spiegare un fenomeno: per esempio, in Lost, l’isola e i suoi poteri curativi.

Quello che è un buco di sceneggiatura (perché solo così può essere definito) è in linea con tutta la filosofia (e ce ne è tanta) della serie: è la fede di cui abbiamo bisogno, è la fede che spiega l’inspiegabile.

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John Locke, la massima espressione del concetto di fede nella serie

Chi ricorda Lost, anche se non disposto a compiere questo atto di fede, di solito lo fa comunque con piacere: l’incredibile numero di pregi copre sonoramente gli innegabili difetti, e fa in modo che l’isola e i suoi personaggi conservino sempre un posto speciale nel nostro cuore.

 

 

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