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American Crime Story, le domande che dovremmo farci

Siamo giunti alla fine di una delle serie antologiche più attese di questo 2016. Se ve la state gustando su SKY e non volete SPOILER, vi consiglio di non proseguire oltre nella lettura del capitolo, ma di accantonarlo un attimo per poi riprenderlo a serie conclusa. Poi, essendo stato – quello raccontatoci dalla serie – un processo pubblico il discorso è bene diverso. Dunque, se sapete già come andò a finire la storia, potete pure procedere nella lettura. Fatte le dovute premesse, possiamo procedere.

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Chi scrive cerca di non abbandonare mai quella vena ironica che trova essere necessaria nella vita e nella trattazione di temi come ‘la serialità’ e tutto si vuol fare in questa sede, fuorché moralismo. Va ammesso, tuttavia, che la forza di una serie come American Crime Story risiede in caratteristiche differenti rispetto a molte altre.

Sicuramente ottimi cast, regia e sceneggiatura, ma quando uno guarda una serie simile si rende conto che c’è qualcosa, in quel prodotto, che, prescindendo totalmente dalle sue fattezze tecnico/artistiche, risveglia qualcosa nella sua mente. L’abbiamo già detto altre volte, ma il fatto che questa serie si occupi di fatti realmente accaduti, probabilmente incide e non poco. Incide nella misura in cui ci mette palesemente davanti al mondo in cui viviamo chiedendoci non per forza di giudicarlo (parola tremenda) quanto piuttosto di prenderne coscienza e di rifletterci. Chiaramente tutto quello che è prodotto dello spettacolo è romanzato al fine di rendere più godibile la visione allo spettatore, ma il caso di O.J. Simpson andò effettivamente così.

Cosa ci ha lasciato la prima stagione di American Crime Story oltre a una piacevolissima visione?

UN MUCCHIO DI DOMANDE. Anzi, di più: un mucchio di domande cui è difficilissimo dare una risposta. E proprio qui sta la grandiosità di questo prodotto seriale: ci smuove nel pensiero, nella riflessione su alcune questioni che – spesso erroneamente considerate marginali – stanno alla base del vivere civile e dell’essere un determinato tipo di essere umano.

Proviamo a riportarne alcune, di quelle che sono venute a noi seguendo questo bel prodotto. Domande che sono quantomeno attuali.

Qual è il limite dell’invasività mediatica in un processo giudiziario?

Deve esistere, effettivamente, questo limite?

Quanto questioni esterne al caso (quelle razziali, ad esempio) devono incidere sul giudizio del caso singolo?

Quanto incide la capacità retorica o di spettacolarizzazione delle parti in causa nel giudizio finale e nell’opinione pubblica?

E’ più importante condannare chi ritenuto molto probabilmente colpevole anche senza la prova schiacciate o lasciare libero un essere umano che potrebbe essere innocente?

(Su questo punto vi consiglio un film bellissimo: La parola ai giurati, 1957 Sidney Lumet)

Quanto incide la notorietà sul giudizio finale e sull’opinione pubblica?

Quanto il nostro desiderio di giustizia è volontà di vendetta per un torto subito e non giustamente punito?

E’ accettabile che un essere umano assolto in un processo penale venga poi condannato in quello civile per la medesima causa?

E queste sono solo alcuni degli innumerevoli quesiti che si pongono alla nostra attenzione dopo la visione della prima stagione di American Crime Story: The People vs O.J. Simpson. Fa sorridere anche che, tra le persone implicate nel processo, l’unico a non scrivere un libro a riguardo sia stato il giudice Ito. Anche qui ci si chiede se siano libri scritti per la necessità di dire la propria su un caso solo parzialmente risolto o per la volontà di lucrarci sopra.

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Una parola sola su quella bella e ambigua inquadratura finale: O.J. che, nel giardino della sua villa, si ritrova a guardare la monumentale statua del campione che egli stesso fu. Non ci è dato di sapere se con orgoglio o estrema vergogna. Non ci è dato di sapere se si riconoscesse ancora in quell’uomo che faceva andare ai pazzi i tifosi. Una sola cosa ci è dato sapere: se non possiamo guardare al nostro passato scoprendoci migliori di quel che siamo stati, forse, abbiamo sbagliato qualcosa.

Elisa Belotti

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