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Ecco perché guardare Transparent: il capolavoro prodotto da Amazon

Adesso ti vedo tutto come se non ti avessi mai visto prima! […] Papà, oh santo cielo! E adesso come ti devo chiamare?

Ali a Maura

Ha passato tutta la vita senza sapere dov’è la sua zona T sul viso? Povera anima persa…

Make-up artist mentre trucca Maura

 

Prima di addentrarci nei soliti discorsi, ci tengo a specificare una questione importante: questa serie è bellissima e onestissima. Ripeto il concetto perché voglio entri bene in testa a tutti: Transparent è una serie bellissima e onestissima. E se il primo dei due aggettivi usati non è raro quanto dovrebbe, il secondo è quasi unico. Perché essere onesti, nel mondo perso, vuoto e imbellettato in cui viviamo, è semplice quanto lo è per un cammello passare in quella maledetta cruna. E se ha vinto due Golden Globes (Miglior serie televisiva commedia o musicale ; Miglior attore in una serie televisiva commedia o musicale a Jeffrey Tambor), AFI Awards (Programma televisivo dell’anno) e il GLAAD Media Awards (Miglior serie televisiva commedia) ci sarà un motivo.

Forse a conferirgli onestà e bellezza ha anche contribuito la sua genesi: Transparent attinge all’autobiografia della sua ideatrice, Jill Soloway. Il padre di Jill, infatti, svelò alla famiglia di essere un transgender.

Non serve essere anglofoni per cogliere la genialità del titolo. Da un lato, Transparent, che significa limpido, chiaro, evidente; dall’altro, basta scomporre il sostantivo per avere un’idea più precisa circa l’argomento trattato dalla serie: Trans: dal latino, “al di là, attraverso”; prefisso che indica il passaggio oltre un termine, (…) mutamento da una condizione a un’altra (cit. Vocabolario Treccani) in questo caso con riferimento ovvio alla transessualità unito a Parent, genitore, padre.

transparent

Morton L. Pfefferman era un docente universitario ed è un padre. È andato in pensione, dall’essere docente, chiaramente: per i genitori non esistono vacanze, stipendio e contributi. Insomma, Morton si addentra in quella che è l’ultima stagione della sua vita. Superata la giovinezza, finito il periodo in cui sei costretto ad alzarti presto la mattina e tuffarti nel mondo a “fare il tuo dovere” retribuito, l’ex-professore si ritrova a dover fare i conti con quello che è e con quelli che gli stanno intorno: la propria famiglia. Così, nel corso della serie, si dichiara ai tre figli: Morton non è Morton, Morton è Maura. Si veste da donna – e lo fa da tempo – e solo in quei panni si sente se stesso. È Maura il nome che devi pronunciare affinché si giri, sentendosi chiamato per strada. Ok, una serie politicamente schierata che ci racconta di questo vecchio professore a cui piacciono perle, pendenti e rossetto… sai che roba starete pensando. Ma vi sbagliate. La serie non parla SOLO di questo. L’orientamento di Morton è certamente il fulcro da cui si dipanano le vicende che possono sembrare collaterali, ma il prodotto di Amazon non si ferma di certo qui. Scrivo “possono sembrare”, perché, di primo acchito, abituati a un modus operandi nell’analisi che è spesso – ahinoi – superficiale, la serie in questione potrebbe essere ridotta a questo: Un padre confessa ai suoi tre strani figli che si veste da donna, ma quanto saremmo miopi. Il vero centro della questione è lo sviluppo dei rapporti famigliari, la loro evoluzione. Per arrivare a cosa? A niente. Per mostrarci, per raccontarci la vita di una famiglia. Per mostrarci, per raccontarci la vita. Punto. Anche i tre figli e la ex moglie sono personaggini mica semplici, ma bellissimi. Ve li presentiamo stringatamente.

Innanzitutto, benché sia il personaggio – tra i principali – più marginale, c’è Shelly. Ci sembra giusto iniziare da lei perché la sua posizione è una delle più scomode: è la ex moglie di Morton. Insomma, un ruolo piuttosto complesso. Pensateci un attimo: la persona con cui siete andati a letto per quasi una vita intera, quella che avete sposato e che ha mescolato il proprio patrimonio genetico con il vostro per dare vita a quelle personcine che chiamate a volte “figli”, altre volte “problemi”, si veste da donna. Capirete che la posizione del personaggio non è delle più semplici e felici. Eppure Shelly non è come ce l’aspetteremmo. È una donna forte, una donna capace e determinata. Una donna con le palle (senza battute sullo scambio di genere tra lei e il marito) e il suo atteggiamento nei confronti della situazione è quanto meno illuminante nel suo essere naturale e spontaneo, vero. Shelly è interpretata da Judith Light (Ugly Betty, Law and Order), che, nella vita vera, è un’attivista per i diritti degli omosessuali e lavora a favore di associazioni LGTB. Eppure, il suo personaggio non si palesa esponente di un dato partito, pensiero, approccio. Sì, forse emerge un’apertura alle cose della vita derivante dagli strascichi di una cultura sessantottina, ma neppure in maniera troppo evidente.

Sarah (la primogenita di Morton-Maura) è interpretata da Amy Landecker (Doctor House, Revenge, Louie). La maggiore dei fratelli Pfefferman sarà anche la prima a scoprire la verità, in un modo del tutto casuale, per altro, e, forse, è quella che reagisce meglio alla “botta”. Lei è sposata, ha due figli, ma rincontra la sua fidanzata del college e… vi lascio immaginare come si evolverà la cosa, ma non fermatevi alla banalità di un plot dall’evoluzione definitiva: le cose sono assai più complicate.

Josh è il secondogenito maschio di casa Pfefferman (interpretato da Jay Duplass), l’ultimo a essere informato della preferenza del padre per la gonna piuttosto che per i pantaloni. Josh è praticamente un hipster. Un produttore discografico di successo, dipendente dalle donne e dal sesso (o dall’amore?).

Ali (Gaby Hoffmann – Louie, Girls) è l’ultima dei tre figli, la preferita del padre. Ali è, semplicemente, strana. Molto intelligente, abbandona l’università e vive un po’ a caso, ritrovandosi spesso in situazioni sessuali rocambolesche. L’unica cosa chiara di Ali è che si sta cercando. Si cerca disperatamente, senza sosta; avanza claudicante, goffa, per le strade della vita, sperando di aprire un giorno la porta giusta e trovare chi è davvero Ali. Un personaggio bellissimo.

Insomma, Trasparent è una serie bellissima e onestissima che parla di una famiglia “vera”. Nel senso che, per quanto bizzarra, la famiglia Pfefferman potrebbe esistere. E “vero” è anche il modo in cui vengono raccontate questa storia, queste storie, queste vite che si intrecciano perennemente. Cosa fanno i personaggi? Nulla di particolare: semplicemente vivono. Non è solo Morton-Maura a fare un lento e faticoso cammino verso la ricerca del sé, ma tutti i personaggi. Persino quelli marginali. C’è qualcuno di noi che fa qualcosa di diverso dal cercarsi ogni giorno? Io non credo.

Già la sigla riesce a suscitare nello spettatore un sentimento strano: una sorta di commozione ingiustificata. Forse perché ci ricorda i filmini di famiglia che, ormai impolverati, conserviamo tutti in qualche cassetto di casa.

Transparent non è una serie particolarmente schierata (forse ha un taglio lievemente femminista, ma non in modo fastidioso), non fa proselitismo, apologia o propaganda di alcunché se non del buon senso che dovrebbe essere, ma non è, comune tra gli esseri umani.

Guardatela, è il consiglio che do a tutti. A chi a spada tratta difende la “famiglia tradizionale” o manifesta stando in piedi e tenendo libri in mano, lo consiglio particolarmente.

Un saluto agli amici di Serie tv, la nostra droga! e Seriamente Tv.