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True Detective, il giallo è un’altra cosa

La prima cosa che scorgi quando inizi a guardare True Detective è il logo della HBO fuoriuscire dalle zigrinature grigiastre del (finto) segnale disturbato creato dai tecnici del montaggio della emittente televisiva della Time Warner.
Oltre a quello, però, c’è ovviamente di più. Considerata come una delle migliori serie poliziesche dell’ultimo decennio, True Detective è un’opera antologica, ciò vuol dire che ogni stagione è distinta e separata dalle altre, con personaggi diversi, storie personali differenti e una crime plot resettata di anno in anno.
Per quanto si voglia parlar bene di un prodotto di così elevata qualità tecnica, è inevitabile provare a scavare a fondo nei vari aspetti che trasformano una serie tv in un capolavoro cult da studiare e interpretare. Ecco, su questo aspetto la serie di Nic Pizzolatto pecca, almeno per come la vedo io, di eccessiva sicurezza nel proporre un modello narrativo logoro e stremato già dalla primissima puntata.

COSA VA

La trama è molto semplice: in un arco temporale ampio diciassette anni, si raccontano le vite dei due detective Cohle e Hart, che nel 1995 si ritrovarono invischiati nel caso dell’efferato omicidio di Dora Lange. L’altra macro realtà temporale (se escludiamo il blocco 2002) è il 2012, anno nel quale i due ex detective vengono interrogati separatamente da due membri della squadra omicidi della città, intenzionati a far luce su un nuovo omicidio che sembra avere dei punti in collegamento con il dossier Lange. Un altro interrogativo è il seguente: perché nel 2002 Cohle abbandonò il lavoro?

Con una regia targata Cary Joji Fukunaga e un soggetto originale dello stesso Pizzolatto, la serie presenta dettagli tecnici studiati e programmati che ne elevano automaticamente la qualità agli occhi dei più. Regia impeccabile dai toni cupi alla Clint Eastwood, ma evidentemente più lenta rispetto a quella di un classico serial poliziesco, fotografia magistrale che ruba effetti e taglio al cinema e interpretazione dei protagonisti – Matthew McConaughey e Woody Harrelson – impressionante, con una menzione speciale all’outsider di lusso Michelle Monaghan.

COSA NON VA
Man mano che si procede nella narrazione ci si accorge di come i casi in questione, per quanto vengano resi dallo sceneggiatore brutali e inquietanti, non costituiscono il vero centro della trama. Pizzolatto scava a fondo nelle anime di Cohle e Hart, evidenziando differenze caratteriali che alla fine sembrano congiungersi verso un unico punto: la debolezza psicologica di entrambi. Se Cohle è infatti un investigatore capace, tormentato e nichilista, Hart appare più come un essere umano ordinario infarcito da valori che molto spesso hanno solo una funzione di apparenza. Un’onesta spalla investigativa che però, durante i vari episodi, avrà modo di dire la sua.

La scelta di focalizzare la narrazione principale sulle vicende personali dei protagonisti è coraggiosa e audace, perché solitamente in una crime story a portare avanti la trama principale è proprio l’indagine che viene affrontata dai due protagonisti. Per quanto abbia personalmente apprezzato la scelta di esplorare la psicologia dei protagonisti, devo però osservare che in alcuni punti la storia poteva e doveva essere gestita meglio: la volontà di costruire personaggi profondi è un must di ogni storia, ma – e lo dico senza remore – a volte è sembrato che l’autore volesse appositamente gettare lì a caso alcuni dialoghi criptici giusto per dare l’impressione di appesantire appositamente le anime dei due detective. Ne deriva, a volte, un’introduzione forzata di variabili che non aggiungono davvero niente alla caratterizzazione dei personaggi e una decelerazione evidente del ritmo della storia.

MODELLO DI NARRAZIONE

Una delle cose che ho apprezzato meno a livello creativo è stata la sceneggiatura, stracolma di dialoghi dal gusto noto e cucita attorno a una trama di base che, diciamocelo chiaramente, non costituisce una poi così eclatante originalità.
Quando la narrazione, poi, sembra subire un’impennata…ecco che a rovinare tutto arrivano i tanto discussi salti temporali. L’idea di lasciare in sospeso più vicende all’interno dello stesso episodio è di certo un’idea brillante, ma ancora una volta non originale e va detto che la capacità di saltare da un periodo temporale all’altro è un’operazione complicata e delicata che, a mio avviso, è prerogativa di pochissimi (Lindelof, abbi pietà di loro).
I colpi di scena presenti, per quanto ben studiati e ben introdotti, vengono interrotti e spezzati in maniera frustrante dai continui balzi sulla timeline e tutto ciò, dopo qualche episodio, innervosisce, perché in una detective story è essenziale lasciare del tempo allo spettatore per riflettere sugli elementi a disposizione. Inoltre non bisogna dimenticare che nonostante il minutaggio standard degli episodi e i numerosi punti di forza che potrebbero essere spremuti e poi ribaltati per la mutazione della prospettiva, la narrazione rimanga per troppo tempo ferma, bloccata, cristallizzata in momenti eterni.

Per quanto mi riguarda non ho trovato sensato nemmeno il cambiamento (no spoiler, altrimenti non c’è sugo) attuato nel corso della settima puntata del serial. Provare a cambiare registro a una puntata dal finale suggerisce due cose: la prima è che Pizzolatto aveva due diverse idee su come orchestrare il finale e, spinto dalla voglia di stupire, si è giocato il colpo a effetto; la seconda, che lo sceneggiatore non abbia guardato per bene il calendario e abbia sbagliato tempistica. Propendo per la prima, ma non si sa mai. L’omicidio iniziale, quello che reggeva l’intera cornice narrativa, prima vacilla manco fosse un equilibrista del circo, poi si infrange a terra nella stessa maniera di un cocomero lanciato da un balcone nel corso di un esperimento di scienze delle scuole superiori.

CONCLUSIONI

Il rapporto Cohle – Hart è quello che mi preme di più. Dipingerli in maniera opposta, farli collaborare e poi scontrare, esplorarne la psicologia e cercare un senso alle vicende passate costituiscono strategie corrette per la riuscita della serie. Ma da tali differenze e da tali contrasti, alla fine di una stagione antologica (antologica, quindi le vicende di Cohle e Hart si direbbero terminate per sempre senza possibilità di essere riprese) si dovrebbe poter ricavare e leggere di più. Invece il fattore dualismo/collaborazione sembra sterile, come un regalo di Natale non richiesto, una vacanza in un posto che proprio non ti piace, una relazione insoddisfacente.
True Detective è dunque un buon prodotto sotto il punto di vista tecnico, con una regia ottima – anche se un po’ lenta – e protagonisti interpretati come si deve dal cast artistico, con una fotografia eccellente e ambientazioni davvero molto curate. Ma in nessun modo è, almeno per quel che mi riguarda, un capolavoro sotto il profilo della narrazione, che procede lenta, blanda, che viene forzata e che accenna a una morale e che viene difesa dai fan più accaniti come un nuovo modello di storytelling, quando di storytelling ce n’è, ma è praticamente scopiazzato da un qualsiasi libro noir e/o hard boiled che trovate in libreria. Il protagonista sarà anche un vero detective, ma il giallo è un’altra cosa.

Matteo Iacobucci