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Ciò che muove le leggi di legame tra uno spettatore ed il personaggio di una narrazione è molto spesso un principio universale, che tuttavia va successivamente perfezionandosi in maniera più soggettiva.
In sostanza, però, c’è un vento di maestrale che spettina le distese erbose per non fermarsi mai e permetterci di fare esperienza di quel principio che sa di affabile viaggio: la leggera ed incorporea progressione.
Si tratta di una sorta di “micro gradualità” che condisce la conoscenza di un personaggio e ne salda le impressioni, un processo per nulla dissimile da quello che ci porta a conoscere una persona.
Ci ho tenuto a precisare che ciò accade molto spesso. Non sempre.
In alcuni casi, il momento in cui si fa esperienza di un personaggio sembra quasi una consuetudine ordinale per la conoscenza di una personalità alla quale pare essere legati in maniera atavica.
Quasi come se il processo fosse, in tal caso, retrogrado.
Quasi come se l’avessimo sempre conosciuto e, di conseguenza, apprezzato.
Insomma, quasi come se tornassimo indietro per comprendere l’affetto che ci ha repentinamente ispirato tale personaggio, impattando contro la veemente spinta di quel vento che esige un’unica direzione.
Per molti, il caso di oggi rispecchia queste stesse dinamiche: quelle che loquacemente raccontano la necessità di tornare bambini, contro il maestrale del tempo, per capire il motivo per cui vorremmo essere Eleven.

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Avete presente il principio di causa-effetto che porta un bambino ad apprendere per esperienza?
Quello per cui il bambino, annichilendo tutti gli oggetti distruttibili che lo circondano, impara che “tutto cade” infrangendolo al suolo?
E’ lo stesso motivo per cui un bambino è sorprendentemente attratto dai palloncini ad elio: rappresentano l’eccezione, ciò che muove verso l’alto e non viceversa.
Essere Eleven e vivere negli anni 70/80 (ma anche oggigiorno, ovviamente), avrebbe significato essere quell’eccezione.
Le ragioni che motivano la volontà di essere Eleven potrebbero essere sintetizzate in cinque cose che saremmo in grado di fare con l’utilizzo dei suoi super-poteri.

1. Prendere il telecomando senza alzarsi dal divano.
2. Prendere il cellulare senza alzarsi dal divano.
3. Prendere la scodella di pop-corn senza alzarsi dal divano.
4. Prendere la voglia di alzarsi dal divano senza alzarsi dal divano.
5. Prendere sé stessi e spostarsi sul divano senza alzarsi dalla sedia.

Ad esempio.

Vi chiederete quanto c’è di logico nell’esporre determinate ragioni per cui vorremmo essere Eleven.
Serve davvero argomentare la volontà di essere una preadolescente con capacità psico-cinetiche?
La risposta è positiva, ma per ragioni paradossalmente differenti da quelle che rasentano l’ovvio.
Per quanto possa sembrare anacronistico, lontano da necessità ed abitudini che carezzano la quotidianità del nostro essere adulti e responsabili, essere Eleven significherebbe sconfinare quei limiti del percepibile che ci conducono in errore e che possono essere umanamente affrontati solo dalla più pura e fervida fantasia.

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Come lei, saremmo in grado di sublimare la fantasia in quei poteri e renderla concreta.
Poteri che, pur nell’ampliarla con la percezione, stritolano la mente in una morsa dolorosa, rappresentando in maniera vivente la metafora dell’apprendere che è bene fare attenzione a ciò che desideriamo, perché può distruggerci.
Avremmo ogni carattere empirico che possediamo ora (immaginazione, azione, dolore, esperienza), ma elevato all’ennesima potenza nell’agire per iperbole (un eufemismo se detto per indicare l’uso di poteri) e soffrire per iperbole (attraverso il dolore che rotola lungo quel segmento di sangue che cerca di nascondersi invano dietro le narici), ed imparare in maniera altrimenti transitoria.
Ci piacerebbe essere Eleven per avvertire fisiologicamente la pericolosità delle nostre azioni, perdendo le forze e sentendoci abbandonare da noi stessi quando stiamo commettendo l’errore di “andare oltre“, portando le nostre azioni allo stremo morale.

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Perfino la “banalità dell’amicizia” diviene mezzo rappresentativo e pertanto potenzialmente invidiabile del personaggio.
Eleven è sola, immersa in un pozzo profondo quanto la violenza e la fraudolenza umane, fino all’esatto istante in cui la sua corsa nel bosco termina e trova, attoniti alla sua visione, il trio di ragazzi che, con l’innocenza nemica dei principi di cui aveva avuto esperienza fino a quel momento, le permetteranno di essere libera per la prima volta.
Un trio di ragazzini scapestrati che (in rapporto alle conoscenze della piccola Eleven) si eleveranno metaforicamente a maestri di vita con un’inevitabile affabilità dai disarmanti aspetti.
Una compagnia di vita che ha il sapore delle più mielate utopie.
Un’amicizia che disegna l’importanza di stare con persone che apprezzano la fortuna del vostro fortuito incrocio.

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Eleven non ha mai chiesto di esser sola, perché un numero primo chiede di esser solo tanto quanto un muto chiede di poter stare in silenzio, sopprimendo volontà malcelate: non ha alcuna scelta.

Ci piacerebbe essere Eleven perché, in tal caso, saremmo quei numeri primi che non hanno più bisogno di alienarsi, per sentirsi adeguati.
Perché perfino un “undici” può sentirsi all’altezza, se elevato ad infinito.