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“Chi disse: “Preferisco avere fortuna che talento” percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no, e allora si perde”. Woody Allen, Match Point.

Anche una guerra è, in parte, una questione di fortuna. Se poi si parla di una guerra mondiale, il caso entra a gamba tesa nel destino di un intero pianeta.

Si pensi per un attimo a cosa accadde nel 1945. Hitler perde la partita, gli Alleati portano a casa il risultato e la Terra vede svanire lo spettro del nazismo. Hitler muore. La Germania riparte da zero. In mondo si divide in due, ma è il male minore. Un male necessario, purtroppo.

E se non fosse andata così? E se al posto di una pallina da tennis ci fosse stata una bomba atomica ed il Führer nei panni dell’inquietante battitore? E se una bomba avesse colpito Washington invece delle città di Hiroshima e Nagasaki?

In poche parole: e se la seconda guerra mondiale fosse stata vinta dai nazisti? La fortuna, probabilmente, non sarebbe stata la componente decisiva, ma quantomeno influente.

E se tornassimo indietro nel tempo, fino al 1962, e vivessimo in una realtà distopica nella quale gli Stati Uniti sono spartiti tra nazisti e giapponesi?

È quel che ha immaginato lo scrittore Philip K. Dick nel romanzo “La svastica sul sole”, riproposto da Amazon Studios in una serie tv intitolata “The Man in the High Castle”, in uscita il prossimo 20 novembre.

La serie, divisa in dieci puntate, verrà distribuita in un blocco unico ed è stata anticipata dalla diffusione ufficiale del pilot ed il primo episodio. Dopo averle viste, si può dire che non manchino le premesse per un capolavoro. Manterrà le aspettative? A critica e pubblico l’ardua sentenza. In attesa del giudizio finale, parliamo di quel che hanno detto i primi due episodi attraverso cinque parole chiave.

LE CINQUE PAROLE CHIAVE DI “THE MAN IN THE HIGH CASTLE”

#1. AMBIZIOSO – Che il colosso di Seattle intenda fare le cose in grande si è capito nel gennaio scorso, quando fu ufficializzato l’accordo con Woody Allen per la creazione della prima serie tv della sua vita. Il programma di Amazon è ambizioso e destinato a grandi successi. Il fiore all’occhiello del palinsesto di produzioni originali è senza dubbio “The Man in the High Castle”.

Il progetto, avviato nel 2014 con Ridley Scott tra i produttori esecutivi, vedrà la luce entro pochi giorni. Un prodotto non alla portata di tutti, ricercato ed elegante, lento ed estremamente riflessivo. “The Man in The High Castle” è una sfida difficile che non contempla la sconfitta. Sarà all’altezza?

#2. LENTO – Una premessa necessaria: raramente un pilot ha un ritmo dinamico che lo contraddistingue. Il secondo episodio, tuttavia, conferma la lentezza narrativa del primo e si può pensare ad una tendenza. Non è un male, ma un potenziale tratto distintivo.

“The Man in the High Castle” è una serie che lascia spazio a riflessioni estreme ed imprevedibili. Assimilare l’ingresso in una dimensione parallela diametralmente opposta a quella che viviamo oggi non è semplice per nessuno. Serve tempo, e spazio. Tanto spazio. Il pericolo è che rischi di essere troppo. Staremo a vedere.

#3. DELICATO – “The Man in the High Castle” bisbiglia e parla sottovoce. In una parola, è delicato. Mai una scena al di sopra delle righe, mai un momento fuori posto. Il prodotto è studiato e calibrato al grammo con grazia.

Descrivere un mondo crudo immerso in una dittatura sanguinaria è l’altra faccia della medaglia. Un bilanciamento necessario e per molti versi innovativo. Se continuerà a parlare alla testa, più che alla pancia, si potrà definire una rivoluzione espressiva.

E poi c’è l’amore, massima espressione di libertà. L’ambiguo intreccio sentimentale tra la bella Juliana e la spia Joe promette scintille. I primi due episodi propongono un abbozzo dagli sviluppi potenzialmente sorprendenti.

#4. VEROSIMILE – Il mondo di “The Man in the High Castle” non esiste. Oppure sì? All’apparenza, il ritratto degli Stati Uniti proposto è una riedizione degli anni Sessanta a stelle e strisce. Cambia la sostanza, senza mutare il contesto.

La fotografia è cupa e con poche luci, di sicuro impatto nell’inserimento di elementi nazi-nipponici in un paesaggio a noi familiare.

Sono gli anni Sessanta, ma sembrano i terribili Quaranta. È una storia di cinquant’anni fa, ma non sembra tanto lontana dai giorni nostri. Una storia nella Storia, allo stesso tempo atemporale. Un paradosso? No, l’equilibrio tra fattori antitetici fa la differenza.

#5. INTRIGANTEDire tutto senza dire nulla. Spogliare la storia da ogni velo, senza mai arrivare ad un nudo integrale. Il fil rouge che unisce i primi due episodi evidenziano l’abilità degli sceneggiatori nell’intrigare svelando le carte lentamente. Nessun buco di trama, tanti indizi e alcuna certezza.

La storia si schiude gradualmente, senza frenesia, senza confusione. L’ingrediente principale della ricetta per la serie tv perfetta è servito.

Palla a “The Man in the High Castle”, ora. Nella speranza che finisca nella metà campo giusta. In questo caso, il peso della fortuna sarà relativo: il talento, certe volte, serve. Eccome se serve.

Antonio Casu