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Westworld continua a stupirci

«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea

Quando le porte di Westworld si chiudono, è difficile capire chi sia realmente folle; chi vi rimane rinchiuso, parassita dell’istinto disinibito e per natura distruttivo di sé stesso in quanto uomo, o chi vi soprassiede con tronfia preminenza?
A distanza di una settimana, non ci ritroviamo a parlare esclusivamente del prosieguo di un percorso iniziato con la leggiadria assonante del movimento di mani che dirige un’orchestra.
A distanza di una settimana, ci ritroviamo a trattare un episodio che, nel costruire le carrucole che slitteranno vertiginosamente le nostre menti nell’abisso narrativo di Westworld, ha preso autorevole voce per arricchire con effetto retroattivo dei concetti delicatamente accennati nell’episodio genitore.
“Westworld” corre, ma senza la disordinata frenesia dettata dalla paura del giudizio.
In questo episodio corre, ma lo fa con quel serafico pragmatismo tipico di un maratoneta conscio del fatto che i chilometri da percorrere sono troppi, e lo slancio vigoroso deve essere una riserva ultima.
E così, il dualismo torna prepotente: creatore e materia plasmata che non sanno che cappello indossare per distinguersi.
Perché è facile entrare a Westworld con un cappello bianco, ma è altrettanto facile tornare scegliendone uno nero.

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Il punto di vista cambia, e dall’apparente fievolezza d’animo dell’androide Dolores, ci ritroviamo ad osservare Westworld prevalentemente dagli occhi di due nuovi “guest“: William e Logan.
Sappiamo ormai che l’atmosfera che ci accompagna lungo il rettilineo cammino verso le porte di Westworld, gravida di presagio, non riflette l’immagine che ostenta nel proclamarsi come l’arrivo in una terra piena di virtù.
Questa volta attendiamo cauti il momento in cui le auliche spoglie della città del vizio tendono a sgretolarsi; lo faranno presto.
William, accompagnato da una seducente guida dai voluttuosi intenti, si addentra in una bianca e visivamente sterile anticamera che precede l’entrata nella cittadina.
Il loro colloquio ricorderà vagamente il viaggio nel rattoppato subconscio dei clienti della “Life Extension” con l’iconica figura del “Supporto tecnologico” in Vanilla Sky.
La location dai minimali e freddi colori si infrange contro la danzante morbidezza dei movimenti nella camminata dei protagonisti e contro il serafico interloquire che quasi inquieta, al fine di creare un’eterogenea commistione; quell’intruglio rievocativo degli stralci eterni di pellicole che hanno trattato l’introspezione psicologica.
A William viene chiesto di appropriarsi di un’arma che non sceglierà.
Gli verrà proposto di consumare una “gentile offerta” della quale, con etica interezza, non approfitterà.
Gli verrà chiesto di scegliere un cappello da cowboy; come da ultimo contorno che rafforza l’identità, come il meticoloso incastro degli stipiti di una porta serrata ermeticamente al fine di tenere racchiuso ogni spiffero di inflessibile valore ed integrità umana appresi.
Per questo, lo sceglierà di colore bianco.

 

Eterno ritorno: il passato che macchia il presente

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«Capire come funziona è metà del piacere. A te spettano le scelte.»
William è spaesato dalla libertà. Come l’uomo per definizione, così William è condannato ad essere libero, a soffrire la pluralità delle scelte, l’assillante obbligo di non avere limiti.
Giunge nel luogo che rappresenta l’anarchia etica e lenisce i dogmi, che stringono il polso e tirano con molesta forza fino a lasciare il segno.
Un livido che segna la linea del pudore, lo stesso livido che il freddo e finto rosso acceso del liquame spacciato per sangue non può calcare su una carcassa che non permette dolore.
William giunge nel luogo in cui potersi sentire liberi dalla «vocina che sussurra di stare attenti, di non vivere liberamente», come afferma la meretrice.
In questo modo, gli host sono resi “umani” proprio dalla mancanza di dogmi che hanno stagliato il costrutto mentale dell’uomo in quanto tale.
L’host è l’uomo vitruviano, perfetto all’origine in quanto in preda agli istinti, che ha lo scopo di indurre l’uomo allo stato natio.
E’ proprio in questo modo che la nascita dell’host ci viene ironicamente scaraventata davanti agli occhi con subliminale sottigliezza: da quel “latte primordiale” che rappresenta l’origine, e nel quale crediamo di non esserci più imbattuti nell’episodio corrente, viene fuori la forma dell'”uomo vitruviano“.
westworldScroscianti litri di denso bianco dal vellutato flusso hanno abbandonato l’appello ai sensi dello spettatore, il quale è chiamato però a prestare attenzione alla lattina che (ancora una volta) impone il suo peso alle mani della candida Dolores: il barattolo cade pesantemente al suolo, rotolando fino ad arrestare la sua corsa al pedice della figura di William; la scatola contiene, come descritto dall’etichetta, del latte.
La psicologia cromatica non ci abbandona, al contrario perseguita l’inesplorato emisfero del subconscio come in un suggestivo e delizioso incubo onirico ad occhi spalancati: il bianco ed il rosso tornano, ancora una volta, come simbologia dell’origine che svela una natura violenta, conseguenza del non riconoscersi come essere perfettamente pilota della propria coscienza. L’esempio nel secondo episodio è rappresentato dagli accurati colori che coprono i volti degli host nativi americani, nel “sogno” della meretrice. Il bianco che nasce, il finto rosso che si svela e muore.
westworld William e Logan approdano a Westworld, dunque, ma qualche incongruenza viene mostrata allo spettatore onnisciente: i ruoli di alcuni host sono stravolti, i dettagli (come il logo all’entrata) della cittadina si discostano da quelli acquisiti precedentemente.
E’ facile giocare con le timeline, tanto quanto è facile perdersi al loro interno.
Nella frastagliata linearità dei fatti, come se cadesse da un’altezza siderale per poi scagliarsi al suolo e svegliarsi in quello stesso istante da un tormentato sonno, il nostro intuito viene scosso da quel dettaglio sopracitato: William raccoglie il barattolo della “giovane” Dolores, esattamente come l'”Uomo in nero” (“Il pistolero“, per gli avvezzi alla pellicola da cui prende vita la serie) fa nell’episodio precedente accennando lievemente il disagio di non essere riconosciuto ancora una volta dalla fanciulla.
Ed ancora, nella sequenza che vede “Il Pistolero” ricattare Lawrence per avere informazioni sulla posizione del “Labirinto“, lo stesso misterioso uomo dai celati intenti afferma di essere un ospite di Westword da circa 30 anni.
Trent’anni: l’arco di tempo passato dall’ultimo enorme disastro a Westworld, come viene accennato nell’episodio pilota da Bernard.
E’ a questo punto che qualche nodo comincia a venire al pettine: guardando l’approdo in città di William e Logan, potremmo aver assistito ad una storyline collocata nell’era del grande disastro.
William, il giovane e timido ragazzo biondo dagli occhi azzurri potrebbe essere “il Pistolero”
.
Un grande disastro potrebbe aver mutato le motivazioni di William (il cui nome potrebbe essere un acuto parallelismo al pluricitato William Shakespeare) la cui nobile anima che si interroga sulla natura umana andrebbe avvilendosi fino a divenire cupa proprio a causa del processo che porta alla scoperta della propria natura, con risvolti che non possiamo ancora ipotizzare e probabilmente legati alla sfera emotiva.
– «Quel guest ha già eliminato un gruppo. Devo provvedere?»
– «Quel gentiluomo fa ciò che vuole
Questo scambio di battute conferma che c’è chi sa, ai piani alti, della presenza di un guest che agisce in maniera decisa sulle variabili di Westworld.
Il Pistolero” ha avuto una sorta di risarcimento economico dovuto al disastro in cui è stato coinvolto trent’anni prima, che gli permette di esplorare i livelli più profondi di Westworld ed agire liberamente tra questi?
Dopotutto, è stata già accennata la possibilità di godere di alcuni privilegi da parte di alcuni guest, e l’eventualità che William abbia deciso di approfittare di questi ed agire per conseguenza diretta di qualcosa avvenuto durante il disastro, è del tutto plausibile.
Westworld ha reincarnato gli istinti convenzionalmente ripudiati e, seppure involontariamente, li ha innestati nuovamente nella mente di guest che, “spaesati dalla libertà“, sono soggetti a sovrascritture tanto quanto gli host.
Se questa teoria si rivelerà esatta, William tornerà a Westworld.
Ma stavolta la sua scelta sarà cupa come la sua anima: stavolta, William sceglierà un cappello nero.

 

L’irripetibilità dell’identità: il piano per la vita eterna
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– «Sei reale
– «Se non lo capisci, ha importanza?»
In “Westworld“, il gioco delle identità rischia di svelare più di una semplice personalità celata.
Qui la domanda che pone un’incognita sull’essere che diventa senziente rompe le pareti della finzione per giungere a noi meta-testualmente: il “Chi sono?” auto-riflessivo dei singoli personaggi si trasforma, barriera dopo barriera come l’eco distorto di una voce che non arriva mai nella sua forma originale al destinatario, per divenire “Cosa sono?” agli occhi dello spettatore.
Nasce, quindi, un gioco di dissimulazione meticolosamente camuffato dalle proprie incertezze (da parte dei personaggi) e mancanza di appercezione di esseri che provano dolore nella realizzazione che la propria esistenza prescinda dalla vivida pulsazione di un cuore che non c’è ma si vede.
Un gioco che contiene i presupposti per svelare, appunto, più di un’identità celata.
Un gioco che potrebbe svelare che gli host sono più di quanti crediamo di vederne.
Perché dopotutto, fintanto che non ce ne accorgiamo, non ha importanza che un essere senziente sia un prodotto dell’uomo o di una divinità ontologica.
Specie dal momento che lo stesso uomo agisca per incarnare tale figura ontologica.
Come col mito platonico degli androgini raccontato nel Simposio, gli esseri perfettamente creati ad immagine e somiglianza delle divinità (ricollegandoci sottilmente alla struttura primordiale perfetta dell’androide disposto come l’uomo vitruviano), ricreerebbero quasi iconograficamente la “scalata all’Olimpo” per rivendicare superbamente una posizione al pari di quella del proprio creatore.
In questo caso, però, nella teoria che svilupperemo non sarà un’insurrezione spontanea.
westworldQueste gioie violente hanno violenta fine.
Il celebre aforisma potrebbe rappresentare l’inizio di tutto: viene suggerito che il bug del padre di Dolores possa essere “contagioso“, ed immediatamente veniamo catapultati nel confronto tra la stessa Dolores e la meretrice la quale, dopo aver sentito pronunciare l’ormai nota frase, sembra confermare la profezia con i “sogni” che seguiranno.
Tali sogni, in maniera piuttosto evidente, rappresenterebbero nient’altro che il ricordo dei ruoli assunti dall’host nelle precedenti programmazioni, prima delle sovrascritture.
Com’è stato tra suo padre e Dolores, così da Dolores alla meretrice viene trasmesso il “virus della coscienza” che sembrerebbe essere attivato dall’aforisma shakespeariano.
Tuttavia, potrebbe non trattarsi di un bug, ma di una scelta deliberata.
Il messaggio potrebbe essere un impulso inconscio volontariamente inserito nella programmazione degli host, da Bernard.
E’ lui, come notiamo in più sequenze, a dialogare con Dolores nell’interrogatorio che ci viene fugacemente riproposto più volte nel mezzo dell’episodio.
Di conseguenza, è facile notare che la voce che guida l’androide alla posizione della pistola sotterrata, nel finale di puntata, è proprio la sua.
westworld Da una risposta, tuttavia, non fa che sorgere l’ennesima domanda.
Perché Bernard starebbe agendo in questo modo?
«So esattamente la tua mente come funziona, Bernard.»
Queste sono le parole che, in uno scambio di battute tra i due, il Dottor Ford pronuncia a Bernard.
Le capacità attoriali di un brillante Jeffrey Wright nel ruolo dell’assistente di Ford sono sorprendenti, e lo sarebbero ancor di più se la sensazione di perpetua e quasi meccanica sudditanza nei confronti del proprio capo rivelasse un agghiacciante twist: Bernard potrebbe essere un androide, un esemplare perfettamente riuscito.
Bernard è in costante apprendimentoE’ affascinante il movimento del tuo sopracciglio quando sei contrariata. Posso registrarlo?»), si “esercita ad essere umano“, ed un ulteriore indizio è suggerito nella scena che vede Bernard e Theresa a letto insieme:
– «Le tue creazioni non stanno mai zitte. Parlano continuamente tra loro, anche quando non ci sono guest intorno.»
– «Cercano continuamente di correggere gli errori, per diventare più umani. Parlare tra loro è un modo per esercitarsi.»
– «E’ così anche per te adesso? Fai pratica?»
Se così fosse, dunque, se Bernard fosse un androide al servizio di Ford, il senso di portare Dolores a scoprire la posizione della pistola sarebbe riconducibile ad una ennesima volontà plagiata.
Ci è difficile, anche se non impossibile, pensare che Bernard possa agire alle spalle di Ford.
E’ qui che entra prepotentemente in gioco un nuovo ruolo che potrebbe risultare una chiave nello sviluppo della trama: la cooperazione.
Gli interessi di Ford e quelli della cooperazione, da quanto abbiamo appreso, sembrano andare in contrasto. Possiamo ipotizzare che gli interessi della cooperazione, di cui sappiamo ancora troppo poco, siano di lucro ed abbiano nei piani la volontà di lasciare che Westworld sia ciò per cui è nato: un parco divertimento per squattrinati senza frontiere morali.
Ford potrebbe, invece, aver agito secondo un interesse più profondo, esistenziale, che affonda le radici nella paura della caducità umana e la volontà perpetuare un’esistenza altrimenti fulminea.
Come notiamo nella scena dai riferimenti biblici, del “Dio sceso in terra“, in cui Ford si reca a Westworld, un ragazzino incrocia il suo pesante cammino lungo la landa sabbiosa e desolata che lo avvicina al “serpente che depone le uova“.
Il bambino presenta analogie col personaggio di Hopkins, sia nell’inflessione vocale ed accento palesemente britannico, che nel vestiario.
A conferma delle nostre impressioni, all’affermazione di Ford «Mio padre diceva che solo le persone noiose si annoiano», il bambino risponde «Anche il mio.» rendendo verosimile l’idea che lo stesso bambino sia la creazione in versione infantile del Dottore.
In linea con questa teoria, si aprirebbe l’idea della perpetuità dell’identità: Ford starebbe plasmando gli androidi su modelli umani realmente esistenti, al fine di rendere permanente la loro identità. Al fine di creare un surrogato di immortalità.
Lo stesso Bernard potrebbe essere il modello androide di un assistente realmente esistito ed a lui caro, che potrebbe essere scomparso proprio a seguito del disastro avvenuto trent’anni prima.
Questo spiegherebbe il contrasto di interessi con la cooperazione; e non solo, potrebbe rivelare che l’artefice del “bug della coscienza” sia lo stesso Ford, con l’aiuto di Bernard (con le direttive date a Dolores per trovare la pistola) e degli script impostati nella terapia ipnoticaQueste gioie violente hanno violenta fine»).
Questo perché l’ultimo passo poiché il “surrogato di immortalità” diventi effettivamente un prolungamento permanente della propria vita è la “coscienza di sé“.
A questo scopo, potrebbe essere utile lo stesso utilizzo, da parte di Ford, di alcuni androidi (Dolores, ad esempio) nel medesimo ruolo assunto trent’anni prima (si spiegherebbe perché Dolores abbia lo stesso ruolo sia nella storyline collocata nel presente, che in quella di trent’anni prima). Al fine di riproporre in quell’embrione di subconscio le nozioni di ciò che c’è stato precedentemente e testare la persistenza della memoria.
Tuttavia, Ford scoprirà presto che l’identità è unica, e che lo stesso pensiero senziente creerà le basi per un sistema a sé: per quanto programmati su modelli esistenti, i sistemi chiusi di fredde e meccaniche carcasse verranno riscaldate dall’umanità frutto del proprio pensiero (non quello da cui prende spunto per nascere), per quanto artefatto questo sia.
I pensieri sono plasmabili come morbida creta, è possibile strumentalizzarli e sintetizzarli per renderli l’innesco latente che condiziona l’esistenza, ma l’identità è irripetibile in quanto unica nelle sfaccettature.
Non è da escludere che Ford inculchi l’idea di creatore, di religione, a Westworld: creare un concetto che permetta agli host di smettere di brancolare nel buio, solo per poter brancolare nella luce accecante dell’illusione.

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Con un ultimo riferimento biblico, con la rugosa e danzante mano di Ford che disegna l’oscillante traiettoria del serpente che indica il luogo del “Labirinto“, il tema del panteismo ritorna prepotente con una sottile, ma tagliente ed autocritica verità: «Tutto in questo mondo è magico. Tranne il mago.»

Ford spinge la propria esistenza oltre il limite più grande ed imprescindibile: quello della mortalità.
E’ convinto che la vita sia solo l’infanzia dell’immortalità.

Un’idea che si insidia come un parassita, che strangola la mente come una straziante emicrania.
L’idea dell’immortalità potrebbe rivelarsi quell’emicrania lancinante, che Ford sconfiggerà tagliandosi la testa.

Un saluto agli amici di “Westworld Italia“!