Sarò sincero con voi, aspettavo 22.11.63 con una trepidazione tale come in pochissime altre occasioni mi era successo. Ad alimentare l’attesa bastavano tre nomi: James Franco come protagonista, JJ “Aspettiamo dove vuole andare a parare con Episodio VIII prima di giudicare” Abrams alla produzione e una sceneggiatura basata su uno dei – modestissimo parere – capolavori di Sua Brividità Stephen King. Onestamente, già con queste premesse l’acquolina era da far mettere il cartello “Attention – Wet Floor“.
Poi c’era un altro motivo, più personale. Alzi la mano chi ha sentito dire almeno una volta la frase: “Bello il film eh, ma il libro è davvero un’altra cosa!”.
Ok, chi è rimasto con gli arti ben saldi sulla tastiera è pregato di andarsene.
Bene, ora che gli alieni e gli eschimesi sono usciti, vi spiego il mio pensiero. Volevo vedere questa serie per testare con mano una teoria che porto dentro da tanto, troppo tempo: l’ipotesi secondo la quale la serialità televisiva è il mezzo migliore per trasportare un libro di successo sullo schermo, più di un film o di una – preparate la faccia schifata – fiction in 2 o 3 puntate “all’italiana”. I ritmi, la cadenza (un capitolo per ogni puntata), le tempistiche sono perfette. Avevo avuto responsi altalenanti su questa teoria, e cercavo la conferma mettendola alla prova con uno dei maestri della letteratura contemporanea.
Di norma, le trasposizioni cinematografiche di King sono tutt’altro che da buttare via (citazioni sparse: Misery non deve morire, Le ali della libertà, Il miglio verde e su tutti, ovviamente, Shining), quindi le aspettative una volta tirato fuori il Pop-Corn dal microonde erano decisamente alte.
Che dire, per quanto possa valere un primo episodio, bene ma non benissimo.
22.11.63: Jake save the Pres
22.11.63 parla di Jake Epping, professore e scrittore di Lisbon, Maine. Ecco, per chi come me è un discreto amante del signor King (e con discreto intendo che ha divorato buona parte della sua produzione, per leggerla tutta probabilmente occorrerebbe qualche vita in più), lo stato di provenienza e la professione di Jake dovrebbero dire qualcosa e risvegliare qualche inquietante Dejavu. Ma abbandoniamo per un attimo il libro, lo riprenderemo più tardi, in fondo stiamo parlando della serie.
La vita di Jake si divide tra la scuola, dove insegna alle classi serali per adulti, e apparentemente il nulla. Ha una ex moglie e pochi amici. Uno di questi è Al, titolare della tavola calda dove è solito consumare i suoi solitari pasti. Neanche immagina che l’armadio delle scope del Diner sia un portale temporale capace di catapultarlo nel 1960. Certo, è anche vero che se l’avesse immaginato la solitudine sarebbe stata probabilmente l’ultimo dei suoi problemi.
Un bel giorno (non per Al) il suo ristoratore preferito gli rivela la straordinaria verità sul suo ripostiglio, insieme al piccolo dettaglio di essere praticamente un morto che cammina, con una malattia terminale, una missione da compiere e un erede a cui tramandarla.
Cosa deve fare Jake? Attraversare la quarta dimensione, tornare nei favolosi anni Sessanta e, udite udite, salvare il presidente Kennedy. Niente assassinio di JFK equivale a niente Lyndon Johnson, niente Johnson uguale a niente Vietnam, col presupposto che senza la tragedia del Vietnam il mondo sarebbe stato un posto migliore.
Carino come compito per casa, eh prof?
Dopo qualche ora di titubanza, giusto il necessario per far crepare Al, il “nostro” decide di prendersi in carico il salvataggio, varca il confine extradimensionale e…
E per ora ci fermiamo qui con la trama, fino a questo punto abbastanza fedele col soggetto originale.
“Il Passato non vuole essere cambiato…”
Il concetto di fondo di 22.11.63 è proprio questo: “Il passato non vuole essere cambiato”. Lo ripete con insistenza Al e lo scopre sulla propria pelle Jake (diventato nel frattempo Amberson, il perché necessiti un alter ego fittizio non è ben chiaro). Quando il protagonista prova ad interferire anche minimamente col corso degli eventi, Chronos si imbizzarrisce e cerca di disarcionarlo. Non un gran viatico in vista dello scopo primario del viaggio.
Qualcuno si è perso Derry
Ciò che invece è stato cambiato – e di molto – è una delle caratteristiche base della letteratura di King. I suoi romanzi fanno paura, sì, ma non tanto per i mostri che contengono, quanto per l’atmosfera da cardiopalma che si respira. Non è la vecchia nella vasca a spaventarci, ma il clima satanico che cola – insieme a un po’ di sangue – dai muri dell’Overlook Hotel; non è It a farci spegnere l’abat-jour con i peli del collo sull’attenti, ma ogni singolo, maledetto, vicolo di Derry.
Eccoci arrivati al punto: a 22.11.63 manca Derry. Fisicamente (ci si svolge tutta la prima parte) e concettualmente. Mettere qui e là della gente che sussurra “Tu non dovresti essere qui” non incute timore nello spettatore, far apparire dal nulla scarafaggi come se piovessero nemmeno. Senza un contesto schizofrenico, senza quella tensione paranoica che si respira nelle ambientazioni di Stephen King, la sensazione è che queste siano solo scene estemporanee, buttate nel calderone tanto per ricordare a chi guarda che “La storia è Sua, e quindi qualcosa di diabolico deve esserci per forza”.
L’effetto è quello di destare perplessità più che terrore, la domanda che ci si pone non è “Oddiomio cosa diamine succederà adesso?!?!” ma “Embè, che mi rappresenta sta roba?”. Peccato, perchè nel complesso la serie funziona. Ciò che credo è che gli sceneggiatori avrebbero dovuto fare una scelta drastica: riportare il libro così com’è oppure dare un taglio netto al sottobosco “Kingiano” e basarsi solo sulla storia principale. Così si rimane nel limbo, col risultato di aver creato una serie di King, senza King.
Agli amanti di 22/11/63 rimane solo una cosa a cui appellarsi per sperare che questa produzione comunque buona diventi ottima, anzi due.
Sadie e Jodie, chi ha letto sa di che parlo, chi non ha letto ne rimarrà affascinato.
Almeno spero.
Simone Viscardi (@simojack89)