Si esce sconvolti dalla visione di 13 Reasons Why. Turbati fisicamente e visceralmente in un modo che non si credeva possibile per una Serie Tv. Ci si appresta alla Serie convinti di avere di fronte un comune teen drama. Trailer, teaser e trama non lasciavano in alcun modo presagire ciò che avremmo dovuto affrontare. È una visione pesante, pesantissima quella di 13 Reasons Why. Ti inghiotte episodio dopo episodio lacerandoti dentro. Non lasciandoti altro che un peso opprimente e un’angoscia insostenibile.
Nella scrittura di un articolo si dovrebbe mantenere un tono distaccato, quanto più critico e oggettivo possibile. Ma non mi è possibile farlo. Mi scuseranno i lettori, ma non si può affrontare in maniera accademica una Serie come questa.
Avrei potuto parlare dei richiami a Donnie Darko, che accompagnano la trama ad esempio nella cover di The Killing Moon o nella celebre felpa con cappuccio alzato indossata dal protagonista; avrei potuto parlare delle bellissime musiche che si legano emotivamente a ogni episodio. Avrei potuto parlare di tutto questo. In maniera più discorsiva ed esplicita. Ma non mi è possibile.
Non è possibile uscire dalla visione di questi tredici episodi meditando una critica sensata a quanto visto. Sarebbe un’ipocrisia. Un’ipocrisia forse di diverso tenore ma non del tutto dissimile da quella che traspare nel mondo che 13 Reasons Why ci mette di fronte. Non avrei voluto essere messo faccia a faccia con una tale realtà. Penso che nessuno voglia mai. Ma bisogna essere onesti con sé stessi. È per questo, anche per questo, che consiglio la visione di 13 Reasons Why. Non starete meglio. Non vi libererete in un pianto catartico. Ma proverete qualcosa di autentico. Proverete la disturbante costatazione della propria colpevolezza.
13 Reasons Why racconta la storia di Hannah, una ragazza che decide di suicidarsi. Lascia sette cassette a nastro, ciascuna incisa su due lati (tranne l’ultima) in cui spiega le ragioni del suo gesto. A ogni lato è associato un avvenimento e una persona direttamente legata ad esso.
Seguiamo Hannah nel suo percorso, nella sua verità personale, nella tenera spensieratezza della gioventù che si tramuta nell’apatico grigiore di una ragazza distrutta. Hannah è morta già prima di suicidarsi. È svuotata di tutto il suo essere. Non prova più nulla, non riesce più a sentire affetto, dolore, gioia, disperazione. È un guscio vuoto.
Non c’è retorica, non c’è sentimentalismo. Non c’è soprattutto buonismo. Non finiamo per compatire Hannah e neppure per condannarla. Per una volta, per un’unica volta almeno riusciamo a capire. Non ci nascondiamo dietro le scuse di sempre: “era una ragazza fragile”, “aveva problemi personali”, “era una in cerca di attenzioni”, “non ha saputo reagire”. No. Nulla di tutto questo.
Noi come Clay, il protagonista, ne usciamo senza parole. Ma prima, prima di questo attraversiamo diverse fasi. Le viviamo materialmente, in una concretezza così vivida da sconvolgerci. Sulla nostra pelle. In ogni singolo poro.
La prima fase è quella della negazione. Non possiamo accettare la storia che ci è stata presentata, non possiamo accettare quanto accaduto. E come noi gli stessi protagonisti: Hannah avrebbe manipolato gli eventi. Cerchiamo di giustificarci, di fornirci un alibi. Ma la verità è che, come Clay, anche noi sentiamo di essere colpevoli. Perché nella nostra vita forse non avremo procurato un male grande come quello di alcuni protagonisti delle storie di Hannah ma come un macigno pesa su di noi il peccato più infimo e subdolo. Quello di omissione. C’è una poesia, una poesia che rileggo spesso. Perché spero sempre che la sua lettura possa indurmi a fare, per una volta infine, una scelta; che, nel momento del bisogno, possa aiutarmi a farmi trovare pronto. Nella parte finale recita così:
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
non fare il bene, questo significa peccare.
Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto:
non c’è stato un peccatore più grande di te.
Questa è la nostra colpa, la colpa più grande. L’indifferenza. Siamo carnefici ogni giorno, in ogni nostra mancanza. Lo siamo quanto Clay, incapace di leggere la difficoltà di Hannah e come lui tutti gli altri ragazzi.
La seconda fase è la rabbia: insieme a Hannah proviamo “un senso di colpa ma soprattutto rabbia, molta rabbia. Rabbia per come funziona questo mondo di merda. Ma principalmente rabbia contro me stessa, per quello che non riuscivo a ottenere”. L’orrore al quale assistiamo non può a questo punto essere retto da altre giustificazioni: vedere quei sottili, costanti, apparentemente innocui atteggiamenti tenuti ogni giorno da chiunque attorno a Hannah non può più lasciarci indifferenti.
Non c’è esagerazione in 13 Reasons Why. Forse si è voluto coagulare in pochi episodi l’insieme di esperienze che si verificano nel corso di anni o più. Ma è un mondo verosimile. Anzi, reale. Perché, in cuor nostro, non possiamo dire di sentire estranei nessuno di quei comportamenti. C’è la rabbia nell’assistere al formalismo e all’ipocrisia dell’istituto scolastico, capace di preoccuparsi solo dell’aspetto legale di ogni vicenda. Così, quando la vicepreside viene informata di una rissa, il sollievo sta tutto nel fatto che lo scontro è avvenuto al di fuori della struttura e “le strade non sono di nostra competenza”. La stessa ipocrisia di un “comitato d’onore” chiamato a scegliere una punizione per i due ragazzi coinvolti nella zuffa. Un comitato d’onore composto da quattro di quegli stessi “amici” di Hannah, colpevoli parimenti della sua morte.
È un micro-mondo quello scolastico della Liberty High che diventa emblema della società: l’apparenza e il rispetto valgono più di ogni cosa. Gli atleti sono osannati, i ragazzi dabbene mantengono un contegno di facciata e si affaticano in esteriori attività extra-curriculari. Ognuno è impegnato a costruire la maschera di sé.
E non dobbiamo pensare che la scuola sia un mondo a sé stante. L’indifferenza, la violenza verbale, l’egoismo, il culto dell’esteriorità non sono una prerogativa liceale. Sono solo espressione amplificata ed esasperata della nostra società. Anche in quel giornalismo scandalistico e sensazionalista che getta l’intimità di una persona in pasto al consumo masturbatorio della massa: “Hai preso i miei pensieri segreti e li hai fatti diventare uno spettacolo pubblico”, afferma Hannah rivolgendosi al direttore del giornalino scolastico.
Hannah non è esente da colpe, ha una sua fragilità, certo. Pure perfettamente comprensibile per la sua età. E sente che dentro di sé “c’è un’ombra che cresce” come l’eclissi di luna a cui assiste nel terzo episodio. Ha una sensibilità particolare. Che non dovrebbe essere una colpa. Ma un merito. “Ci sono tante cose sbagliate al mondo, tanta sofferenza. Non accettavo l’idea di averlo reso peggiore, non accettavo l’idea che non sarebbe mai stato meglio”.
C’è il peso di chi sente il carico disperante del mondo, in queste parole, nelle sue parole.
Non è poi un caso che il mezzo scelto dalla ragazza per la sua confessione siano le musicassette. Hannah in questo modo costringe l’ascoltatore a seguire un percorso preciso, segnato, da lei tracciato. Non si può “saltare” o “smanettare” (episodio 1×01). Siamo obbligati a seguire la sua storia così come lei l’ha meditata. Implicitamente è evidente la critica alla tecnologia. Attraverso di essa passano alcune delle umiliazioni subite dalla ragazza. E significativamente nel primo episodio assistiamo a un selfie di un’anonima studentessa davanti all’armadietto di Hannah, postato poi col disgustoso ashtag “#nondimentico”. Dice niente?
Si prova il più concreto sconforto nello scorrere delle immagini, nel procedere delle puntate. Fino ad arrivare alla scena più sconvolgente, quella del dodicesimo episodio. La brutalità e il silenzio colpevole. L’orrore finale. Impressiona molto più della vista del suicidio di Hannah. Impressiona più di ogni cosa. Impressiona perfino noi, generazione anestetizzata dalla visione sullo schermo delle violenze più truculente. Non c’è pari in quell’immagine.
Nessun ventre squartato, nessuna budella penzolante potrà mai eguagliare quella terribile sequenza. Probabilmente sarebbe a stento vietata a un minore di tredici anni. Eppure sconvolge e sintetizza un intero corollario di abusi. In quella carne esanime penetrata e sbattuta c’è l’indescrivibile orrore di cui può macchiarsi un uomo. È qui che muore davvero Hannah.
Ci arrendiamo anche noi con lei. Siamo fisicamente distrutti. Dobbiamo necessariamente sospendere la visione. Guardiamo apatici lo schermo senza riuscire a pensare a nulla mentre la mente vaga stancamente. Non c’è giustificazione che tenga. Nessuna razionalizzazione. Siamo violati nella più viscerale intimità.
A questo punto, direte voi, manca l’accettazione. Manca. Non riusciamo proprio a riconciliarci con la realtà. Qualcosa si è rotto per sempre dentro di noi. Prendiamo con imbarazzo questo dolore così reale proveniente da una fonte tanto poco credibile come quella di una Tv. Lo prendiamo e lo portiamo con noi. E proviamo l’indicibile desiderio di non dimenticarlo mai. Perché in quel dolore messo in scena, sentiamo che c’è qualcosa di autentico. Qualcosa che dovrebbe accompagnarci nella vita di tutti i giorni.
La forza del racconto, la profondità della storia, la brutale vividezza delle immagini non possono essere macchiate neppure da un finale indegno. Da una sequenza conclusiva che sa di beffa. Con tanto di insensata battuta e musica fuori tono. A noi piace immaginare che la storia termini un po’ prima, magari proprio sulle ultime parole di Hannah che in fondo è la vera e unica protagonista di 13 Reasons Why.