Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su 1883
Siamo finiti dentro la nazione di Schrodinger: tutto è e non è allo stesso tempo. Ogni cosa, ogni singolo essere vivente e inanimato esiste, resiste e muore nella medesima scheggia d’umanità, mentre la storia di un sogno prende vita sulle radici di un incubo senza fine. Gli Stati Uniti si raccontano, si specchiano e si stagliano in frammenti dinamici che si ancorano alla storia, in 1883. Dando anima e corpo a una narrazione dai toni epici, consapevolmente sopra le righe, ridondanti per un piacere funzionale. La quintessenza dell’essere western, dentro l’anima più pura di un genere che fa del suo ostinato immobilismo espressivo un tratto immortale, buono per ogni epoca. Se si chiudono gli occhi, però, sembra quasi di sentire l’odore acre di un insensibile fast food, tra i romantici profumi di una natura che urla per preservare ogni residuo spazio vitale. Il rombo di un aereo, il caos della nostra contemporaneità, i clacson di una miriade di auto furenti destinate chissà dove. Chissà perché, nel silenzio di una landa desolata che invoca la sua sacrosanta lentezza e l’inevitabilità di un ciclo che potrebbe spezzarsi in ogni momento, senza mutare in alcun modo il proprio Dna.
Poi gli occhi si riaprono, e la storia torna indietro all’impazzata. Si ferma per un singolo istante in cui tutto si sveste e si riveste, tra il vecchio tramonto e una nuova alba. Mentre le lancette del tempo scorrono implacabili verso la nostra, di storia. I colori di un mondo lontano si tingono di bei colori, dal sapore d’un bianco e nero ormai desueto. Il 1883 della gilded age, l’età dell’oro, si presenta in tutta la sua innata crudeltà e la sua arcigna malizia, seducente. Oscilla tra il desiderio di una fortuna a cui aggrapparsi con la determinazione e l’insana dose di follia dei visionari, dentro un vagito. E l’ultimo respiro di un mondo ormai pronto a spirare, soffocato dall’insolente arroganza di chi ha voluto ridisegnare ogni cosa a sua immagine e somiglianza.
Una carezza, in un pugno. La storia di 1883 così si schiaccia e abbraccia passato, presente e futuro in una sola dimensione atemporale, in un non luogo che assume i contorni dell’universalità.
Nel paradosso di un racconto dai tratti invece ben definiti, ossequiosamente canonici. Dal contesto chiaro, definito e tratteggiato attraverso una maniacale scrupolosità, con un linguaggio e un fuoco espressivo che riconoscono una continuità tra le opere di Ford e Hawks, gli spaghetti del nostro Leone e la nuova generazione di narrazioni ben inserite nella nostra era seriale e cinematografica. Come se vedessimo 1883 da sempre, senza averla mai guardata fino a pochi mesi fa.
Nata dalla brillante penna di Taylor Sheridan, la miniserie, prequel di Yellowstone, racconta quindi una storia classica, con una chiave revisionista che la adatta alle rinnovate esigenze dei nostri tempi. La storia di sempre, una delle tante visitate e rivisitate nel corso di svariati decenni da un’infinità di autori suggestionati dall’epopea di una nazione a suo modo unica. L’essere americani impregna ogni respiro di ogni singolo protagonista, trovando la sua catarsi nella profonda caratterizzazione di maschere senza tempo. Ed è qui che 1883 fa davvero la differenza: attraverso la cornice di un essenziale topos della narrazione western, la cosiddetta Oregon Trail che accompagna un manipolo di disperati e speranzosi pionieri dal profondo Texas all’impervio nord-ovest degli Stati Uniti in un viaggio che non conosce il concetto di giustizia al di fuori della sensibilità di pochi, Sheridan disegna le vicende umane di tre generazioni d’americani in cui si condensano l’illusione, la disillusione e l’eterea visione onirica di un’idea di mondo che si scontra con la durezza di una realtà che cristallizza la storia all’interno di un dipinto dalle infinite sfumature.
I destini dei vecchi americani, incarnati in particolare dalla rocciosa e malinconica figura di Shea Brennan, un uomo fortemente ancorato al suo senso del dovere, reduce dalla sanguinaria guerra di secessione e testimone di un’epoca in cui il neonato Stato aveva stabilito un primordiale ordine delle cose, incontrano quelli di un gruppo di immigrati tedeschi, alla cieca ricerca di fortuna nelle tenebre dell’inconsapevolezza, in una terra illuminata che offre la prospettiva di un domani più florido. Si frappongono a essi le esperienze della famiglia Dutton, avi del John che ha fatto le fortune di Yellowstone. Come James, uomo di mezza età caparbio e impavido, determinato nel dare una consistenza diversa al proprio futuro e a quello delle persone a lui care. E il personaggio più particolare di 1883, Elsa, sua figlia, a cui la talentuosissima Isabel May presta il volto, la voce e un’ampia gamma di sensazioni e innocenti visuali che si schiudono in un intenso viaggio, una vita intera.
Maschere classiche, moderne e contemporanee, l’anziano reduce e l’indomito cercatore di fortune. E una meno ortodossa, atipica in un contesto del genere e portatrice di elementi che sovvertono le convenzioni sulle figure femminili tradizionalmente presentate e offrono un nuovo respiro alla chiave western, ormai distante dagli stanchi stereotipi di un tempo: la giovane sognatrice osserva il mondo in un modo tutto suo, con gli occhi di una bambina e lo spirito di una donna che ha imparato ad appropriarsi di un mondo in cui gli equilibri tra bellezza e crudeltà sono sempre sottilissimi. I racconti personali rendono uniche le definizioni dei contorni, le emozioni vissute e le imprevedibili esperienze che incontrano sulla strada dell’ignoto verso una nuova casa da costruire, mattone dopo mattone. 1883 non si riduce mai alla mera narrazione degli eventi, a cui non priva un brivido di brutale realismo nei momenti più crudi, ed esplode attraverso la voce narrante di Elsa, per molti versi la vera protagonista di questa straordinaria storia. Dentro il suo struggente sguardo, verso un mondo che scopre vorticosamente con l’intensità e il lirismo di chi vive ogni giorno come se fosse l’ultimo.
Uno sguardo pieno d’entusiasmo e d’amore, passionale e violento nella frenesia con cui assapora ogni istante della sua breve vita: una carezza mentre il destino le riserva un triste epilogo, segnato da una lunga cavalcata agonizzante che la conduce verso la morte. Elsa, tuttavia non si spezzerà mai, nemmeno dopo aver esalato il suo ultimo respiro. Non avrà mai davvero paura di niente se non di essere dimenticata. E se ne andrà con la consapevolezza di aver vissuto un’esistenza piena, seppure condensata in un tempo troppo breve. Arriverà a mettere in scacco la morte, farla sua amica, abbracciarla e addormentarsi senza cadere nell’oblio dell’anonimato. Sapendo che la sua, almeno la sua, non sarà mai una croce come troppe altre.
La sua voce sussurra e arriva alle orecchie di tutti, in nome di un sovvertimento delle conflittualità più basiche e irrazionali. Arriva alle orecchie di chi ha rinunciato a vivere a fondo la propria esistenza e si è limitato a sopravvivere in un miope microcosmo. Ma anche per chi ha combattuto in passato in nome di una causa non sua, ricordandosi solo in tarda età di poter avere una propria identità e di potersi far cullare dalle placide melodie di un inquieto oceano. E per chi la ricorderà, dentro una stretta genitoriale che si sospende nel tempo per attraversare i secoli e arrivare fino a noi. Ai nostri giorni, sette generazioni dopo. Al tempo di un uomo che non si arrenderà al tramonto di un’epoca e farà di tutto per preservare il valore della memoria. L’essere America, quella più pura e idealista, si sublima quindi nel sorriso di una giovane donna che in direzione ostinata e contraria infrange ogni barriera per volare ovunque voglia, al di là di ogni guerra. Lo “spirito della frontiera”, se si parlasse di un dipinto di John Gast. Ma anche nella disillusione di Shea, un uomo pieno d’amore, e i sogni concreti del romantico James, costruttore del mondo in cui viviamo oggi e che una nuova contemporaneità sembra voler portare via.
Così nasce l’America, l’America che oggi conosciamo. Attraverso le storie di chi inseguiva un sogno e ci si era aggrappato a costo della propria vita, tra gli echi di una tragica epopea in cui troppi si erano nascosti vigliaccamente dietro l’idea di un qualche diritto divino, colonizzando così una terra libera attraverso un truculento genocidio. Mentre pochi avevano capito che potesse esserci spazio per tutti e il concetto di civiltà non fosse determinato dalla necessità di omologare e sopraffare i più deboli. L’ha capito Elsa, una donna che ha capito cosa significhi davvero essere umani e amare il prossimo con tutta se stessa. Ma per molti versi anche James, sempre pronto al dialogo. E il vecchio Shea, con la lucida consapevolezza che in un’altra linea temporale, in un mondo ideale, un mondo in cui la giustizia esiste sul serio e la libertà avrebbe potuto trovare un altro lido in cui far echeggiare il suo suadente canto, tutto ciò non sarebbe successo. Le fondamenta di un mondo che sfiorerà la luna con un dito mentre pensava di doversi fermare in Oregon, in cui si combinano il romanticismo degli individui col sangue di un’intera era. E un’idea di autonomia, pura e incondizionata, meravigliosamente umana, con un prezzo da pagare ingiusto. Una macchia indelebile, nella storia di una nazione che sola ora sta iniziando – faticosamente – fare i conti con le proprie responsabilità secolari. Un sentiero marchiato da troppe croci in cui tutto è e non è allo stesso tempo. E in cui si scambia il progresso con la mera sopravvivenza dei più forti.
Lo diceva Elsa Dutton, una voce in bianco e nero che sembra in qualche modo arrivare dai nostri tempi: “Non sapevo nulla dell’orrore che si nasconde nell’ombra della libertà”. Come darle torto, nel momento in cui volgiamo lo sguardo tra le increspature di un mare profondo in cui nuotare in compagnia dei nostri avi. Un bellissimo mare, macchiato dal rosso della violenza più bieca.
Antonio Casu