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1923, là dove il passato è presente

1923
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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su 1923

Si prova una sensazione alienante nell’immergersi in un passato che sembriamo rivivere da una vita intera: l’idea che la storia si ricicli per ripresentarsi sempre uguale a se stessa, utilizzando volti, nomi e percezioni come se fossero pedine di un grande racconto in cui giriamo in tondo per essere sempre gli stessi. Punti fissi, monoliti inscalfibili alle prese con i medesimi dilemmi, i soliti tormenti, gli immutabili ostacoli delle ere che si succedono per limitarsi a un efficace travestimento. Il progresso, camaleontico, ci avvolge in una spirale in cui delinea cerchi concentrici, vorticosi. Ci soffoca, nell’illusione che corra a ritmi forsennati col fine d’essere altro. Plasma il mondo a propria immagine e somiglianza. Ci abbaglia con le luci seducenti, l’aspro cemento e gli assordanti rumori di una realtà aumentata che assume i toni della simulazione. Disillude, togliendo il fiato ai sogni più romantici. Per poi gettare la maschera, agli occhi più attenti. E rivelare la sua vera natura: la natura dell’uomo arrogante che si è messo in testa di giocare a interpretare Dio ancora una volta, in nome di una supremazia da preservare a ogni costo. Un impulso atavico, che si traveste da progresso. Fin dall’alba dei tempi.

Il 1923 delineato da Sheridan, allora, si sovrappone al presente di Yellowstone. Per tradire le promesse di un 1883 che sembra essere distante ben più di quarant’anni, e riscoprirsi vivo nella sua monumentale attualità.

Mentre gli echi del reazionario John Dutton si riflettono nell’incapacità del vecchio Jacob di vivere le proprie ambizioni al posto giusto nel momento giusto. Orfano della Grande Guerra, ostaggio della Grande Depressione e di un futuro che sfonda la sua porta prima ancora di aver pensato di bussare. Fuori luogo, fuori dal tempo, fuori dallo spazio: Jacob è, senza poter più essere. Obsoleto, sconfitto dalla storia prima ancora di aver avuto occasione per combattere e rivendicare le proprie ragioni. Barricato nelle sconfinate distese del proprio regno, come un re che impone alle lancette di fermarsi nell’esatto momento in cui si muovono all’impazzata. Lancette impertinenti, liquefatte dal calore di un rogo inarrestabile. Reattive nel presentare il conto, a chi pensa di poter imporre delle leggi valide per tutti meno che per se stesso. Mentre il futuro, assolutista, dissolve ancora il sogno di Elsa e fa passare gli idealisti del remoto ovest per stolti. Per l’ultima volta, un’eterna ultima volta che si ingabbia da un secolo.

Si esprime così 1923, secondo spin-off di una delle migliori serie tv dell’ultimo decennio: Yellowstone. E lo fa usando la storia attraverso una prospettiva specifica, a suo modo universale. In grado di abbracciare il Novecento col medesimo approccio con cui si è sempre approcciato alla nostra contemporaneità. Nella culla a noi familiare, un ranch immutabile che non sa sincronizzarsi con un’America in rapida evoluzione e non sa intercettarne umori ed esigenze. Una culla statica e suggestiva in cui i Dutton rivivono ancora una volta, attraverso le affascinanti interpretazioni di Harrison Ford ed Ellen Mirren, una saga in cui si stagliano perennemente a un passo dal precipizio per poi rinascere dalle proprie ceneri. Cent’anni, allora, corrono via in un battito di ciglia: dall’irrazionale finanza alla corsa all’oro, da un Montana costretto a reinventarsi per riscoprirsi grande a una vocazione turistica rigettata dagli anziani patriarchi, dagli anacronistici cowboy e le inefficaci mandrie a un secolo in cui l’Ottocento aveva rapidamente ceduto il proscenio all’insolente incedere delle macchine, Yellowstone rivive in un’epoca sua da sempre, per sopravvivere in nome di una terra da preservare disperatamente.

I Dutton, quindi, rivendicano una storica appartenenza a una proprietà che loro, in realtà, non era mai stata, ma era dei nativi che una proprietà, al contrario, non l’avevano mai voluta. Loro sì, armonici col contesto e con i tempi compassati di una regione con cui limitarsi a convivere in pace. Loro sì, massacrati impunemente. E aggrappati alla speranza che la pioggia, un domani, laverà via l’onta dal terreno colmo di sangue. Ma l’America non era ancora pronta a tutto ciò. L’America del 1923 non riconosce le ragioni degli antieroi, i torti dei novelli carnefici e le strazianti grida di sofferenza delle vere vittime, scambia i ruoli e si ritrova ancora nel solco di una tragedia perenne, invocata dagli ignobili soprusi dei pellegrini che s’arrogano il diritto di parlare in nome di un Dio iniquo, dai tracotanti arrivisti e dai magnati del progresso che occultano le armi col candore di un foglio bianco da riscrivere. Mentre la penna colpisce a morte chiunque si frapponga tra loro e una ricchezza, la vera ricchezza, da tramandare alle generazioni future alla ricerca di uno sfrontato superamento dei limiti della mortalità.

Là dove il passato è presente, 1923 si racconta anche attraverso il dispiegamento dei suoi orizzonti narrativi in direzioni inedite.

Là dove la storia, quella di un secolo globalizzante, si è aperta a frontiere fin lì inesplorate, la grande avventura si ritrova nell’incontaminata Africa nella stessa misura in cui si tramanda nel Montana. Negli occhi di Spencer, l’uomo della provvidenza costretto ad affrontare l’incedere di un mondo che si è accartocciato su se stesso tra gli spettri mai sopiti di un rovinoso conflitto. Nel suo viaggio verso l’ignoto si ritrovano le orme ormai perdute di una donna, sua sorella Elsa, voce narrante di una storia che sfida i confini del tempo, al contrario: dal sogno alla disillusione, dalla disillusione al sogno, dall’abbraccio di un sogno solo apparentemente impossibile alla fuga da un incubo insostenibile, in nome di un’idea romantica tanto forte da poter convivere con la brutalità di uomini travestiti da bestie, là dove tutto sembra ormai perduto. Nell’impervia leggenda di un cacciatore che ritrova se stesso grazie all’amore per una donna sbarcata da un microcosmo ostaggio dell’incomunicabilità e del predominio di un antico prestigio ormai al tramonto, Spencer diviene parte di Alexandra. E Alexandra di Spencer, tra le righe di una storia che si sospende tra le rive di un Oceano e l’immensità di un mare da attraversare in direzioni opposte, per ritrovare un cognome perduto e un nome finalmente rivendicato.

Più forte d’ogni cosa, la libertà invoca ancora un posto nel mondo e si affranca dai gioghi del secolo breve, il distruttivo miraggio di un essere superbo che trova sbocco nell’asettica omologazione. Per ricongiungere trame in apparenza sconnesse e finalizzarsi nel secondo capitolo futuro di 1923, in cui le nuove sfide della storia imporranno ai Dutton ulteriori sacrifici estremi, senza concedersi il lusso di distinguere il bene dal male. Il martirio di una casata, mai indugiante nel farsi scudo per proteggere un’eredità da tramandare ai posteri. L’espressione dell’innata ostinazione di un’idea di mondo impossibile, ormai insensata eppure capace di resistere ai tumulti della modernità per oltre un secolo. Lontana dalla sfrontatezza delle città, mai domi di fronte al rombo di un automobile, allergici all’elettricità, arroccati alla propria identità. Per un giorno ancora, prima che la chimera di una notte di metà Ottocento spiri per l’ultima volta e si ricongiunga alla terra tanto amata. Cedendo il passo alla visione di una prigione dorata, edificata fin da quando ci siamo convinti d’essere evoluti in un essere davvero sapiente. Nei corsi e ricorsi storici di una fiaba dai contorni oscuri, in cui non abbiamo mai smesso di vivere nel 1923. Innocentemente, senza mai rendercene conto.

Antonio Casu