Non c’è direzione sicura, ovunque si volga lo sguardo, quando è l’aria che ci circonda e ci riempie, o il suolo che ci tiene in superficie, a dettare le regole. Quando il problema dipende da noi pur essendo troppo più grande di noi, il primo meccanismo di difesa tanto istintivo quanto vigliacco si traduce nella ricerca di un colpevole, nella goffa arringa di chi non può accettare la propria disumanità per natura.
Che sia un impersonale “noi” o un più accusatorio “altri”, il colpevole non sta mai nel singolo, quando l’ambiente si ribella e il mondo crolla. Quando non c’è più una strada sicura da imboccare e il singolo sente di non poter più fare la differenza, la fine del mondo non è più un fatto, bensì un contesto.
Lento e inesorabile, come il liberatorio ribellarsi della Terra.
A Murder at the End of the World ha questo messaggio intriso nel titolo e, soprattutto, nell’ossessione di Derby Hart, la sua protagonista. Il nuovo cyber-thriller scritto da Brit Marling e Zal Batmanglij (reduci dal grande rimpianto The OA, mistery drama scritto per Netflix), sfrutta l’ossessione come iperbole per spiegare gli effetti dell’incuranza e dell’indifferenza, riuscendo a condire il peso di tale messaggio con una regia cristallina, una sceneggiatura ai limiti della teatralità per esasperare le situazioni fino a rendere il più classico “whodunit” un veicolo narrativo.
Il processo che ha portato Brit Marling e Zal Batmanglij a concepire questa storia è simile a quello che accadrebbe mettendo Agatha Christie e Isaac Asimov nella stessa stanza e costringendoli a spiegarci il concetto di tragedia etica. Brit Marling torna a fare metanarrazione dal primo istante, quella cui ci aveva ben abituati con The OA, mostrando una ragazza (Darby, protagonista della storia) che fa uno stanco storytelling che annoia una pian piano andante platea, annoiata e distratta. Questo finché il racconto non diventa più personale, nella storia di Darby così come per lo spettatore di A Murder at the End of the World, finché i numeri e le morti di cui parla (accennando immediatamente, dai primi istanti, una delle tante tematiche sociali che la serie avrà il coraggio di affrontare, ossia il femminicidio) non diventano una storia.
Una sola, con volti e fatti. Solo allora Darby cattura l’attenzione della platea, e così la nostra.
Così Brit Marling, che anche stavolta è creatrice e attrice (in questo caso da co-protagonista, e non da protagonista assoluta come visto in The OA) della serie, sovverte ancora le regole e comincia dalla fine (del mondo, metaforicamente; della storia, narrativamente).
La serie ci immerge alla fine del racconto in tutti i modi possibili, giocando anche con l’aspetto sensoriale (che è stato tanto caro anche in The OA), manipolando sapientemente il climax.
Così un tipico rallenty romantico sembra già il titolo riepilogativo di una storia d’amore cui da spettatori abbiamo già regalato tutta la nostra spietata fiducia, con Darby e Bill che senza essersi ancora presentati al pubblico sanno già di quell’amore che profuma di fumo e caffé, con baci che sanno di coca-cola, romantico e maledetto, conflittuale ma anche salvifico come Dan e Candy in un Paradiso + Inferno dei giorni nostri.
Avvolti da musica astratta e contesti suburbani a tinte vagamente dark, Darby e Bill, timidi e cauti, chiedono il permesso di amarsi con la stessa delicatezza con cui Brit Marling e Zal Barmanglij intrecciano temi come l’inclusività e la distopia tecnologica anche semplicemente introducendo termini come “intelligenza alternativa” in opposizione al più comune “intelligenza artificiale”, scelta che si rivelerà di sarcastica importanza.
A Murder at the End of the World sembra voler dire tanto, a tratti troppo, finché non diventa piuttosto chiaro – grazie soprattutto a uno storytelling da manuale – che il novero di tematiche delicate sono l’ennesima matassa da sbrogliare in una serie che d’altronde è sempre stata un crime con un messaggio ben chiaro, e per la quale il detective non è più Darby ma lo spettatore. Questo perché se è vero che c’è tanto della filosofia simbolista e “prossemica” di The OA (“l’impatto non si misura solo da ciò che dici, bisogna anche avere il potere di essere ascoltati quando lo dici”), che gioca sull’importanza della nostra occupazione dello spazio in quanto esseri interattivi e il modo in cui sfruttiamo la comunicazione, così come c’è tanto dell’influenza tecnologica nella società e la sensibilizzazione sul tema climatico-ambientale (“serve qualcosa di molto più veloce di così, la gente non vuole fare delle rinunce, crede che la tecnologia li salverà”), è anche vero che la quota portante della critica mossa da A Murder at the End of the World si basa ancora una volta, come in The OA, sulla salute mentale. In particolare, sul disturbo ossessivo.
“Il serial killer non conta. Il killer è noioso, prevedibile. Ciò che conta è la cultura terrificante che continua a produrli”.
Un messaggio chiaro, radicale, ma che ha una tendenza ossessiva nella misura in cui finisce per essere indebitamente attribuita alla responsabilità di una sola persona.
Proprio grazie a questo concetto, torniamo all’assunto iniziale: A Murder at the End of the World vuole esasperare l’ossessione, rendendo la sua protagonista Darby il tenero, nobile ma anche arrogante martire che sente di poter fare la differenza da solo, in opposizione morale alla verità più scabrosa di tutte, ossia una società che si pone in maniera indifferente e si sente deresponsabilizzata dalla colpa dell'”altro” o del “noi” nei confronti della cosiddetta fine del mondo.
Proprio a proposito di martirio prende voce il personaggio di Lee, non a caso interpretato da Brit Marling, una donna vessata, perseguitata, terrorizzata. Una donna che ha conosciuto un uomo potente che riteneva in grado di salvarla da tutto, salvo poi scoprirlo come parte di quel buco nero che l’ha inghiottita e che è anch’esso fatto di ossessione, solo palesata in una forma diversa.
Prima di arrivare a questa evidenza, A Murder at the End of the World ci mette più volte di fronte al concetto di psicosi e al significato che diamo alla persecuzione e alla codipendenza, e lo fa più sottilmente quando Darby si mostra ossessionata dal caso, tanto che il tentativo di Bill di farla rinvenire viene visto dalla protagonista come deriva sessista e pregiudicante. Quanto più Darby è tutt’uno col suo cellulare, col suo pc, con la tecnologia, tanto più Bill percepisce che il vero nemico della protagonista è l’ossessione e non il killer (“quei cellulari fanno perdere noi stessi, non lo sopporto”).
L’ossessione di chi sta facendo della ricerca di un colpevole la vera fine del mondo, soltanto perché convinto di essere troppo piccolo per cominciare un cambiamento.
Soltanto perché convinto che la tecnologia, alla fine, lo salverà.
La verità è che a nessuno importerà chi ha ucciso il mondo, perché non ci sarà più nessuno a tenere il punteggio. Il killer è noioso, è prevedibile, e guarda caso siamo sempre “noi”.
Anche in A Murder at the End of the World.