«Non guardare, non guardare…»
È attraverso il sottile meccanismo della psicologia inversa che Una Serie di Sfortunati Eventi ci ha tenuti incollati allo schermo. E ne è valsa veramente la pena. Almeno per quelli che si sono lasciati conquistare dallo stile della serie, volutamente surreale, volutamente parossistico, volutamente pessimista. D’altra parte solo in questo modo, con questo stile, si potevano mandare giù dei bocconi tanto amari. E se non sei in grado di sottostare alle leggi che la stessa serie ti impone hai un’unica soluzione: «Non guardare, non guardare…».
Fino alla fine la serie è stata ben attenta a far rispettare il tenore di sventure che riguardano sia i protagonisti – i tre orfani Baudelaire – quanto tutti quelli che li circondano e, perché no, anche lo stesso Conte Olaf. In fondo nemmeno a lui le cose vanno troppo bene, se pensiamo al fatto che non riuscirà mai neanche lontanamente ad avvicinarsi alla fortuna di Klaus, Violet e Sunny. Ma lo è anche in considerazione di un altro aspetto che l’ultima stagione, la più intima delle tre, ha approfondito.
Questa serie di sfortunati eventi nasce ben prima della morte di Beatrice e Bertrand Baudelaire.
Nasce quando è proprio Olaf a provare l’orrore che implica perdere un genitore. Lui per primo rimane orfano. Assistendo, peraltro, alla morte accidentale del padre, causata indirettamente da quella zuccheriera che, al di là del senso concreto che assume nella puntata finale, resta quello che avevamo ipotizzato che fosse: un mero MacGuffin, un pretesto sul quale costruire una storia, tragica ma bellissima.
Olaf quindi, in realtà, è niente più di un uomo logorato dal dolore e dalla vendetta. E la terza stagione lo mette in chiaro in maniera ammirevole, conferendogli un sottile spessore morale che è ben distante da quel male aprioristico che ne ha caratterizzato la storia nel corso della serie (e che noi spettatori abbiamo amato odiare). L’Olaf di Una Serie di Sfortunati Eventi resta un assassino e tutti i suoi efferati crimini restano qualcosa di imperdonabile.
Ciò nonostante riesce, in qualche modo, a trovare una sottospecie di redenzione, ricordando l’uomo che era un tempo e contribuendo a salvare la figlia dell’unica donna che abbia mai amato: Kit Snicket.
Già, la famiglia Snicket è un’altra componente fondamentale di questa storia. Lemony è il narratore, ma è riduttivo definirlo tale. è il nostro punto di riferimento, in grado di strappare un macabro sorriso con le sue lettere a Beatrice e, al tempo stesso, dare un tono aulico agli eventi narrati (peraltro interpretazione sontuosa quella di Patrick Warburton). Jacques e Kit (interpretati rispettivamente da Nathan Fillion e Allison Williams) non sono solamente legati alla backstory della zuccheriera e dei VFD; il fratello e la sorella di Lemony hanno impreziosito la serie generando un mix di curiosità – per come avrebbero potuto aiutare i Baudelaire – e commozione, in seguito alle loro dipartite.
Al tempo stesso la terza stagione di Una Serie di Sfortunati Eventi ha sancito la maturazione dei tre protagonisti ed è cresciuta insieme a loro. Se le prime due stagioni hanno visto i Baudelaire sempre attenti a non cedere al risentimento nei confronti di Olaf, preservando un’etica incorruttibile, in questa stagione si sono trovati spesso nella posizione di rivedere le loro convinzioni. La loro purezza d’animo ha spesso rischiato di vacillare al cospetto di una libertà, tappa dopo tappa, sempre più utopica. Una Serie di Sfortunati Eventi d’altra parte va inquadrata come una gigantesca metafora sul conflitto generazionale. Bambini contro adulti e l’apparente incomunicabilità tra questi due mondo. Ne consegue in maniera naturale che, prima o poi, i tre protagonisti si sarebbero trovati nella posizione di perdere la loro fanciullesca ingenuità.