Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su ACAB – La Serie.
La golden age. La golden age della serialità italiana, nello specifico. L’epoca dell’oro di un intero movimento che sta cambiando e si sta riplasmando senza mai perdere di vista la tradizione. Ne abbiamo parlato spesso, nell’ultimo periodo: l’espressione è parte di un’analisi globale in cui stiamo evidenziando la crescita costante della nostra serialità, evolutasi negli ultimi anni grazie a numerosi titoli di livello che non rappresentano più mere eccezioni. L’abbiamo evidenziato nella nostra classifica delle migliori serie tv italiane del 2024, ma anche in un articolo dedicato al percorso televisivo di Sky, nelle recensioni della bellissima The Bad Guy 2 o dell’ultima stagione de L’Amica Geniale: le serie tv italiane sono diventate altro e non hanno più niente da invidiare alle grandi produzioni internazionali.
Lo stiamo facendo e lo faremo ancora. È arrivato il momento di superare definitivamente i pregiudizi che ancora circondano le serie tv italiane. Niente di sorprendente: ognuno di noi è in qualche modo figlio di Boris, e non mancano i titoli in circolazione che scommettono con decisione su un formato generalista ormai superato da parte del pubblico. La lunga premessa non è un’inutile divagazione: centra il punto rispetto a quello che stiamo per dire. Il 2025, infatti, è iniziato con premesse simili (se non persino superiori): da un lato abbiamo la straordinaria M – Il Figlio del Secolo (ci torneremo tra pochi giorni), dall’altro ACAB – La Serie.
Già, ACAB. La serie tv, distribuita nei giorni scorsi da Netflix, è l’ennesima dimostrazione in tal senso.
Prima di procedere, però, evidenziamo brevemente alcuni degli aspetti che ci stanno portando a impegnarci con un’espressione così altisonante, rispondendo a un quesito: cos’ha la nuova generazione di serie italiane che in precedenza si vedeva solo in casi sporadici?
- Una vocazione internazionale che non si abbandona all’esterofilia. I prodotti d’esportazione hanno un’identità ancorata al nostro Paese e propongono qualcosa di nuovo nel panorama globale.
- La vocazione internazionale, pur essendo spesso destinata a un mercato interno, si riflette nello sviluppo di storie audaci e intriganti per un pubblico ormai abituato a un’idea di serialità molto diversa rispetto a vent’anni fa.
- La “cinematografizzazione” delle serie tv italiane poggia le basi su un gusto estetico ed espressivo più eclettico e originale, e nella cura più decisa di ogni aspetto tecnico.
- Sfuggono sempre più agli approcci generalisti a cui eravamo abituati. Un paradosso, o quasi: la televisione mondiale, spinta dalla crisi dello streaming e dalla necessità globale di contenere i costi e massimizzare le rese, sta andando nella direzione opposta, “tornando al futuro”.
- Le serie italiane stanno dando più spazio a una nuova generazione di autori, più liberi di esprimere il proprio talento e la propria visione.
Sono solo alcuni punti: gran parte di essi meriterebbero un articolo a parte, ma rendono l’idea di quello che stiamo cercando di trasmettere. Ecco, alla luce di tutto questo, vogliamo sbilanciarci: ACAB è all’altezza di target tanto impegnativi. La serie prodotta da Cattleya, diretta da Michele Alhaique e scritta da Luca Giordano, Bernardo Pellegrini, Filippo Gravino, Elisa Dondi e Carlo Bonini (già autore del romanzo da cui è tratta) occupa un posto importante all’interno di questo percorso. E non sarebbe esagerato definirla una delle migliori serie tv italiane realizzate finora da Netflix.
ACAB è una serie necessaria
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Quando era stata annunciata, non era mancato lo scetticismo. Gli standard d’alto profilo imposti dal film originario – diretto da Stefano Sollima, qui presente nelle vesti del produttore esecutivo – avevano trasmesso alcune perplessità a proposito dell’operazione televisiva. Basta dare un’occhiata ai primi minuti del primo episodio di ACAB, tuttavia, per rendersi conto di avere a che fare con una serie tv che eguaglia il film. L’adattamento Netflix arriva addirittura a espanderne l’immaginario, grazie all’utilizzo perfetto di un mezzo che si presta a un maggiore spazio d’approfondimento.
I personaggi si delineano così all’interno di un quadro d’insieme ancora più completo e sfaccettato, ideale per approcciarsi a un tema complesso e divisivo con grande equilibrio. I protagonisti di ACAB sono tratteggiati con una componente umana forte e realistica, sfuggendo fin dall’inizio a ogni potenziale strumentalizzazione senza mai ricorrere ai soliti stereotipi. Come evidenziamo all’interno della recensione, questo è un mondo di individui che vanifica ogni impulso votato a logiche binarie ormai fuori dal tempo, arrivando a non scindere mai il mondo in buoni o cattivi. Lo fa da una parte, e fa altrettanto dall’altra. ACAB parla delle storture che esplodono in uno scenario brutale e caotico, rifugge ogni giudizio e lascia spazio a un racconto nel quale ognuno potrà vedere quello che vuole.
Un equilibrio notevole, affatto scontato. Il tema è quello che è, e affrontarlo con questa lucidità sarebbe stato difficile per chiunque.
ACAB, dal canto suo, punta però sulle esperienze umane dei singoli e sulle sue evoluzioni nel momento in cui si entra a far parte di un sistema (dai valori nobili) che si scontra con le (tossiche) rigidità di certi ambienti. L’obiettivo non è mai quello di svilire una figura chiave della nostra società civile, ma evidenziare gli abusi di chi ne macchia il ruolo. Una prospettiva audace che finisce per non emettere una sentenza. Un aspetto fondamentale, foriero di un dibattito concreto. Un dibattito che sfocia nella demagogia e in aprioristiche prese di posizione solo nel momento in cui ci si approccia alla serie senza l’indispensabile elasticità nella lettura delle dinamiche.
In quest’ottica e in molte altre, ACAB è una serie tv necessaria. Si allontana dalle logiche di denuncia più pretestuose e, allo stesso tempo, da una tendenza all’edulcorazione di cui non si sente più il bisogno da tempo. In un periodo storico in cui le polarizzazioni più estreme stanno avvelenando i confronti con conseguenze deleterie, la ricerca della sfumatura e delle zone grigie è diventata ancora più importante.
ACAB è bella da guardare, ma anche dolorosa
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Allo stesso tempo, ACAB è una serie che garantisce un ottimo intrattenimento. Dotata di un gran ritmo che accresce la tensione e il senso claustrofobico vissuto dai suoi protagonisti, l’esperienza televisiva è appagante nella misura in cui i sei episodi scorrono via con fluidità e trasmettono plasticamente l’universo caotico nel quale ci immerge. Un’esperienza dura e a tratti soffocante che non lascia un attimo di tregua, restituendo la cupezza di vicende insostenibili. La regia di Michele Alhaique massimizza la resa attraverso prospettive soggettive intense che si poggiano sulle ottime interpretazioni di un cast maturo, capace di reggere la scena coi silenzi almeno quanto fanno con le parole.
Le sue soluzioni, creative e mai autoreferenziali, massimizzano la resa e ampliano il raggio d’azione con grande maestria. Soluzioni che esplodono ancora di più negli ultimi minuti del season finale, grazie a una serie di sequenze che meriterebbero analisi approfondite per riconoscerne il vero valore.
Altrettanto fa la colonna sonora dei Mokadelic, abile nel riempire gli spazi con una centralità assoluta e discreta allo stesso tempo. Una colonna sonora perfetta nel porre l’accento su alcune scene chiave con soluzioni mai scontate: la scelta di utilizzare il brano E non andare più via di Lucio Dalla, in particolare, ci ha regalato una scena a dir poco straordinaria. Meritano un elogio anche i protagonisti principali, immersi nei rispettivi ruoli con una forza magnetica. Conosciamo benissimo il valore di attori del calibro di Marco Giallini, Adriano Giannini, Valentina Bellè o Pierluigi Gigante, ma è sempre un piacere riscoprirli con ruoli all’altezza del loro talento. Ruoli ricchi di complessità e di sfaccettature nelle quali si schiudono i drammi di persone scisse e riunite nelle connessioni più viscerali tra la vita professionale e privata.
Per questi motivi e molti altri, ACAB merita valutazioni elevate che le permetteranno di ottenere una posizione significativa nelle classifiche di fine anno.
La speranza, a questo punto, è che la serie tv possa avere una seconda stagione: i presupposti, d’altronde, ci sono tutti. Molte le questioni irrisolte che meritano una risposta esaustiva: su tutte, il destino finale di Mazinga dopo l’adrenalinica scena che ha accompagnato il finale di stagione. Netflix crederà ancora in ACAB, oppure dovremo accontentarci di quello che abbiamo visto? Saranno i numeri a dirlo nei prossimi mesi: le regole, ormai, le conosciamo bene. Noi, in ogni caso, ci presenteremo puntuali all’eventuale appuntamento: avevamo un gran bisogno di una serie così.
Antonio Casu