In un 2021 in cui la critica sociale rivolta verso ricchi potenti e privilegiati sembra essere un trend seriale e cinematografico di spicco, in un novero di prodotti oscuri e controversi si colloca la colorata comedy di Apple Tv+, Acapulco. Questa ripropone le riflessioni già avanzate ma in un’altra chiave, leggera e molto più velata, nascosta dietro un racconto a metà strada tra sogno e favola. Focalizzandosi maggiormente sul duro lavoro della classe operaia, Acapulco è più orientata a essere una workplace comedy con drammi dal sapore delle calde soap opera.
Si tratta di uno dei più recenti show del servizio di subscription video on demand di Apple, ispirato al film del 2017 How To Be A Latin Lover e creato da Austin Winsberg, Eduardo Cisneros e Jason Shuman. Con dieci puntate da trenta minuti ciascuna, la figura cardine della prima stagione è Eugenio Derbez (How to Be A Latin Lover) nel ruolo di protagonista e produttore esecutivo di tale coming-of-age bilingue spagnolo/inglese.
Acapulco comincia con quello che sembra essere il suo punto di arrivo: nel presente Maximo Gallardo (Eugenio Derbez) si sta godendo un soleggiato pomeriggio nella sua lussuosa proprietà nel sud della California, quando decide dare al suo unico e adorato nipote Hugo il suo regalo di compleanno. Il ricco magnate decide di passare la giornata libera dal lavoro per celebrare l’americanizzato familiare, raccontandogli il passato della famiglia a partire proprio dalla gioventù spesa come impiegato a Las Colinas, uno dei più popolari resort di Acapulco, Messico. Ha così avvio una storia narrata dallo stesso protagonista che catapulta in un flashback nostalgico e dai colori saturati che inizia dal 1984. Lo show intervalla costantemente i fatti narrati degli anni Ottanta e il presente, introducendo un giovane Maximo (Enrique Arrizon) che cresce e si destreggia tra una moltitudine di colleghi e familiari.
Il viaggio nel passato di Maximo racconta la scalata sociale di un giovane messicano il cui sogno si concretizza quando ottiene il lavoro ideale nel resort più alla moda della città. Sin da bambino, il protagonista ha proiettato in Las Colinas una chance di evasione, la possibilità di rivalsa e di sognare una vita in grande, un’opportunità per cambiare la propria condizione e quella della sua umile famiglia. Nel genuino entusiasmo di iniziare a lavorare per la struttura, Maximo non è conscio del fatto che questa celi una vita lussuriosa e non proprio in linea coi puri valori che la religiosa madre gli ha trasmesso. Infatti, la tradizionale Nora lo ha sempre additato come un luogo vizioso in cui regnano peccato e sregolatezza, capace di corrompere anche le menti più integre. Teme che l’ambiente possa cambiare suo figlio in peggio, conquistandolo con superficialità e materialismo attraverso lo svilente lavoro al servizio di bianchi privilegiati. Lo stesso protagonista si rende presto conto del fatto che l’impiego sia ben più complicato di quanto potesse immaginare: le sue convinzioni e i suoi principi morali iniziano a essere messi in discussione. Maximo è un giovane di buon cuore, onesto e entusiasta ma, nonostante l’ottimismo e l’ingenua positività che lo contraddistinguono, questi non è immune alle tentazioni del nuovo scintillante mondo con cui entra in contatto. Si lascia tentare e corrompere da una vita spianata dal facile denaro che Las Colinas permette di guadagnare. «L’ospite ottiene sempre quel che vuole», è questo il mantra che porta i dipendenti a compiere delle azioni non sempre moralmente limpide per soddisfare i clienti e ottenere a mance cospicue.
Vedendo il Maximo del futuro, è certo che il resort gli ha permesso di realizzarsi e lo scenario sfarzoso pare aver avuto la meglio. Sebbene sembri surreale che il giovane ragazzo dal cuore tenero possa realmente adeguarsi a una realtà così spietata, l’uomo che vediamo sullo schermo non ne è che la spiazzate dimostrazione. La condizione e lo stile di vita del futuro Maximo lasciano intendere sin dal principio che questi non sarà destinato a servire i facoltosi ospiti della piscina de Las Colinas per sempre.
Disponibile su Apple Tv+ a partire dallo scorso 8 ottobre, abbiamo anche intervistato in anteprima il cast di Acapulco.
Acapulco è dunque un racconto dall’atmosfera fiabesca che tanto ricorda un sogno, un’illusione utopica avvolta dagli sgargianti colori del resort e delle vivaci vie della grande città del Sud America. Lo show costruisce la sua struttura attingendo ad alcuni degli schemi convenzionali della produzione cinematografica e seriale passata per avvolgere in una patina dai toni pastello un racconto intergenerazionale e un viaggio nostalgico tra ricordi ed esperienze formative.
La favola dell’ingenuo e laborioso Maximo sembra trarre molte delle sue dinamiche dai prodotti che l’hanno preceduta e affiancata. Partendo dallo schema già iconicamente proposto in show come How I Met Your Mother, Acapulco ripropone una voce narrante esterna che ripercorre gli avvenimenti. Il protagonista racconta la propria storia al nipote per illustrargli il cammino che l’ha condotto alla fortuna ma, in realtà, questo si rivela un pretesto con cui cerca di curare le proprie ferite e potenzialmente chiudere un cerchio che è ancora in qualche modo aperto. Il Maximo adulto è un narratore inattendibile: la verità sta da qualche parte nel mezzo. Col tempo alcuni ricordi sono alterati, in quanto spettatori esclusivamente della prospettiva del protagonista, riceviamo soltanto la sua versione. Proprio perché il ricco magnate è sia voce narrante esterna che presente attivamente nella trama, Acapulco si dota di un’aura fiabesca. A fronte del fatto che le vicende sono riportate da Maximo stesso, questi è il cuore pulsante delle vicende, si districa tra lavoratore astuto, ammiratore sognante della collega Julia, figlio e fratello premuroso e alle prese con qualche dramma e personale rivalsa. Come in How I Met Your Mother, lo show propone con lente nostalgica la gioventù del personaggio, soprattutto in riferimento a quell’amore che sembra non aver ancora trionfato.
Come già introdotto all’inizio, Acapulco calca lo stesso trend già portato in scena da altri titoli tra cui spicca lo show HBO White Lotus. L’assonanza sta tutta nella ipocrisia del contesto e di alcuni personaggi: i ricchi sono i ricchi e i poveri sono i poveri, la distanza è netta. Seppur a contatto col mondo scintillante del resort, i dipendenti non ne fanno realmente parte, ne sono dei visitatori di convenienza. I locali che vi lavorano sono illusi dalla speranza di entrare a farne parte, e anche se questo dovesse accadere come a Don Pablo, a quale costo e, soprattutto, per davvero? Acapulco, a differenza di White Lotus, non si preoccupa tanto degli ospiti e di chi questi siano, questi entrano ed escono dalle scene e dalla struttura totalmente indisturbati e senza la minima conseguenza. Acapulco ne marca solo la distanza, possono alle volte sembrare particolarmente a contatto coi locali, ma questa non è che un’illusione strumentale allo scopo di soddisfare i clienti. La serie di Apple Tv+ non è oscura e amara come quella di HBO, tutt’altro: proprio perché non è White Lotus, propone sempre una sorta di finale positivo, una morale o un insegnamento da ricavare dalla relativa delusione.
Nel resort de Las Colinas regna un’ipocrisia di fondo, soprattutto da parte della ricca proprietaria Diane. Nella struttura vige una implicita appropriazione culturale: sfruttando e corrompendo i propri dipendenti e il relativo bagaglio culturale con la proposta di una vita adagiata, in cambio del lavoro al servizio dei più privilegiati occidentali, la donna apre le porte di un mondo peccaminoso, frivolo e materialista. I vacanzieri desiderano un’esperienza turisticamente immersiva, ma che non sia veramente a contatto con la cultura locale, vista realmente come rozza e primitiva. Nell’hotel sussiste una celata ghettizzazione della comunità del posto, e latina in generale, a partire proprio dal divieto di parlare in spagnolo, col conseguente obbligo di esprimersi solamente in inglese. Il ricercato esotismo si orienta esclusivamente verso la proposta di un’atmosfera inzuppata di giallo e rosa che emani positività, ma che non si esponga troppo in relazione a una realtà che gli ospiti desiderano solo osservare tramite una lente idealizzata e lontana.
Un ulteriore elemento che sembra ereditare dalle produzioni che l’hanno preceduto è soprattutto connesso al bilinguismo che caratterizza Acapulco. Questo rimanda in particolare a serie tv dalla simile linea editoriale, come Jane The Virgin e La Casa De Las Flores, entrambe commedie con drammi dai toni da telenovela. A metà strada tra parodia e omaggio alle soap opera latine, questi giocano coi caratteristici twist scottanti e dinamiche esagerate, ma comunque capaci di non appesantire il racconto. Sfruttando in maniera funzionale, gli elementi di cui questi si appropriano, Acapulco propone un melodramma insaponato, confortante e intrigante come i contenuti che l’hanno anticipato. Questo non è che strumentale ad attribuire alla serie un’atmosfera utopica che tanto ricorda un sogno a occhi aperti, quello di Maximo, attraverso la quale viviamo le formative vicende a Las Colinas. Il resort risplende di una lucentezza fiabesca, sia in senso figurato che letterario: attraverso vividi colori pastello che animano le mura rosa e gialle della struttura, le sfarzose feste e persino le divise da lavoro, lo show riempie di apparente felicità e ottimismo anche contesti che in realtà – a volte – non lo sono.
Da questo punto di vista, Acapulco potrebbe sembrare ancora alla ricerca di una propria identità. Ciò nonostante, la base su cui la trama si poggia ha un potenziale ampio già illustrato nel corso della prima stagione: dosati con frizzante cura, gli schemi già visti annullano l’aura da cliché per abbracciare una linea narrativa che sembra più un omaggio che una tentata replica dei titoli che abbiamo già imparato ad amare.
Acapulco offre un intrattenimento confortante e disimpegnato.
Nonostante le sottili critiche sociali, Acapulco è per lo più un racconto rinfrescante e leggero, che avvolge e conforta senza pretese in un mondo cinico e ricco di contenuti oscuri. Il racconto del duro lavoro di un giovane un po’ illuso, voglioso di impressionare e farsi strada in un lussuoso resort messicano trasmette positività e speranza. La serie tv riesce a essere divertente senza prendersi gioco della cultura di riferimento e proponendo un’evasione dalla realtà a basso impegno. Senza rinunciare a un certo standard qualitativo e a un’intrattenimento caldo e coinvolgente, Acapulco ironizza sul genere in questione, riprendendone strutture e stereotipi, appropriandosene per stravolgerli e proiettarli nella modernità. Nel riproporre alcuni cliché e schemi già impiegati, potrebbe risultare ripetitivo, ma si denota per una ridondanza confortante e non stucchevole. Pur se senza particolari pretese, o comunque meno rispetto a quella delle concorrenti, è un’ottimo show dalla buona qualità narrativa e visiva.
Acapulco si caratterizza per una messa in scena attraente, proprio a partire dalla cura per i dettagli nella realizzazione della location votata ai toni pastello e a un rosa che spicca su tutte le altre gradazioni. Leggera, intrigante e rassicurante, la serie tv è ben bilanciata anche dai tipici personaggi ricorrenti, nettamente etichettati in relazione al proprio contributo alla storia, ma non per questo incapaci di mutare, sono invece approfonditi al di là della mera rappresentazione unidimensionale. C’è spazio per l’articolazione di ogni prototipo di personaggio: l’amico di sempre, il collega rivale, la religiosa madre, la una cotta impossibile, la frivola proprietaria orientata al profitto, e l’amabile hotel manager a metà strada tra padre e mentore per il giovane. In questo caso, tali figure e le relative interconnessioni non sono solo stereotipate, con una spontanea velocità anche molti dei personaggi di supporto evolvono e si muovono dal calco dell’iniziale categorizzazione del proprio ruolo.
In conclusione, un ultimo fattore che incide sull’identità che Acapulco assume in quando serie televisiva è la scelta di rimarcare costantemente lo stacco continuo tra l’impiego della lingua inglese e quella spagnola. Come già sottolineato, a Las Colinas non è ammesso parlare la lingua locale, questo è un vero e proprio elemento di stigmatizzazione all’interno delle mura del resort. Sono consentite soltanto le hit mondiali degli anni Ottanta riproposte in spagnolo dalla cover-band dell’hotel, che accompagna tutta la storia e orienta nel periodo storico. Queste sono le uniche tracce della cultura latina presenti nel luogo di lavoro, sufficienti a conferire ai vacanzieri quel quanto basta di parvenza di essere a contatto con la comunità latina. Però, ciò non ha nulla della vera realtà che vive a pochi passi dalle mura del resort: l’obbligo di comunicare esclusivamente in inglese divide sin da subito staff e ospiti. Segnando una stabile divisione tra noi e loro, Acapulco sfrutta il bilinguismo della propria linea editoriale per veicolare una riflessione basata su segnalazione, sfruttamento e emarginazione di una minoranza, che in realtà in tale scenario sarebbe maggioranza, ma finisce per essere governata da un pugno di privilegiati e potenti. Infatti, Las Colinas si basa su un ecosistema quasi completamente composto da locali, se non fosse proprio per la ricca proprietaria e il suo impacciato figlio, americani e occidentali in tutto e per tutto.
Il passato è fatto di tanti momenti irripetibili che non torneranno.
Acapulco ci rende partecipi di una storia semplice che viaggia su due rette parallele: il passato di Maximo e le vicende di questi nel resort, e il presente in cui racconta a suo nipote, attraverso la propria prospettiva (e per questo non si sa fino a che punto affidabile), la storia di come si è formato fino al successo economico. Tra dilemmi morali e piccole conquiste giornaliere, riviviamo la giovinezza del protagonista, fatta di attimi unici e che non possono essere rivissuti se non attraverso il ricordo e il racconto intergenerazionale. Maximo custodisce gelosamente le proprie memorie per poi condividerle con la speranza di trovare il coraggio di mettere un punto fermo al proprio passato.