La medicina tradizionale cinese afferma che cinque sono gli elementi utili per rappresentare le energie dinamiche che governano il “Tutto”: Legno, Fuoco, Terra, Metallo e Acqua. Ciascuno di questi cinque elementi racchiude in sé delle caratteristiche ben specifiche che lo rendono unico. Per esempio l’elemento Fuoco rappresenta l’estate, il colore rosso, il clima caldo, la crescita, la gioia come sentimento, la risata come suono e l’amaro come gusto. L’elemento Metallo, invece, rappresenta l’autunno, il bianco, la secchezza, la raccolta, la tristezza, il pianto e come gusto il piccante.
I cinque elementi fanno parte, tutti nessuno escluso, di diversi cicli come quello del nutrimento per cui ogni elemento nutre il successivo ed è nutrito dal precedente: il Fuoco è nutrito dal Legno e nutre la Terra. Oppure il ciclo del controllo secondo il quale il Legno domina la Terra, che sua volta domina l’Acqua, che a sua volta domina il Fuoco, che a sua volta domina il Metallo, che a sua volta domina il Legno, eccetera eccetera. Cicli continui, come il giorno e la notte, le stagioni.
Probabilmente, anzi sicuramente, se Tony, il protagonista di After Life, leggesse una premessa del genere direbbe che non c’è nulla di scientifico e che sono tutte ca***te, bulls**t. Kath, la sua collega, invece, le troverebbe interessanti, magari capace che le adotterebbe fino alla prossima sbandata, verso qualcosa che sia maggiormente in grado di riempirle la vita. Del resto il primo è chiaramente uno scettico mentre la seconda, all’opposto, una credulona. Ma che si appartenga a una o all’altra, entrambe le categorie, come nella teoria dei cinque elementi, fanno parte del grande ciclo della vita. E perché no, della morte.
Nessuna filosofia, né tanto meno psicologia da quattro soldi, da pianerottolo. Semplice osservazione. Così After Life ci ha obbligati, per scelta nostra sia chiaro, nel corso di diciotto puntate distribuite equamente in tre stagioni, a osservare piccole perle grezze, opache, disseminate qua e là. A osservare e, nel caso, a custodire, secondo la nostra discrezionalità e capacità di raccolta. Piccole perle di vita (e di morte, of course), nemmeno di saggezza, a volte ben chiare, altre volte, invece, offuscate dalle nostre reazioni. Perché così, normalmente, anche se normale assume un valore piuttosto ampio, funziona la vita. Attimi brevi, come il luccichio di una lucciola in una calda notte di prima d’estate, confusi e interpretati secondo le nostre emozioni che, in quanto tali, assumono immediatamente un valore assoluto. Quando di assoluto, nella vita (e nella morte) c’è davvero ben poco.
Di After Life si è detto molto. Del suo finale poi s’è scritto di tutto. L’interpretazione dell’ultima scena, così aperta e per questo ambigua, ha lasciato sgomenti i fan che si sono riversati su internet dando le più disparate spiegazioni, alla ricerca di un confortante happy end necessario a chiudere il ciclo. Un ciclo che, invece, va avanti e si ripete. Come la fiera di Tambury. Come la vita. Perché After Life è questo: una precisa rappresentazione della vita. Che, sostanzialmente, se ne frega di noi e prosegue senza sosta, alternando il giorno alla notte, le stagioni, le ere, in un ciclo continuo, senza tregua, sempre più grande. Nasciamo e poi moriamo, vivendo un tempo sconosciuto che ci è dato non si sa da chi. Un tempo che, se va bene, può essere di settanta, ottanta, forse novanta anni. Ma che nel complesso di ciò che è stato e ciò che sarà è praticamente niente. Un po’ come la vita di quella moschina che dura un giorno e basta. E in quel lasso di tempo che possiamo fare? Ognuno il suo, basta guardare i personaggi di After Life, ciascuno con le sue gioie e i suoi dolori, le sue vittorie e le sue sconfitte. Da dietro lo schermo lo spettatore assiste, nella serie inglese, a una perfetta rappresentazione di quanto più comune c’è nello stare al mondo. Certo, a volte si ha l’impressione che certi personaggi siano un po’ tirati fuori dal cilindro dei Monty Python, ma tant’è, il mondo è talmente vasto che da qualche parte si troverà sicuramente un Pat o un James.
Ciò che ci accomuna tutti, alla fine dei giochi, sono i sentimenti e le loro rappresentazioni fisiche, così personali e, a volte, così difficili da esternare. Cosa che, nel guardare After Life, non dev’esser stato troppo difficile da fare. Perché il piccolo gioiellino di Ricky Gervais è sicuramente riuscito a scatenare qualcosa dentro. Gioia, tristezza e con esse il riso (o sorriso) e il pianto (o la commozione). La storia un po’ te le tira fuori, senza fare nemmeno troppa fatica. Una risata nel vedere Tony senza filtri insultare il genitore molesto dentro il caffè; una lacrima nel sentirlo commuoversi parlando della moglie. Quel che è difficile in After Life è riuscire a mantenere l’equilibrio dato che le situazioni da comiche si trasformano in tragiche e viceversa, in un attimo. Ma una volta capito il meccanismo, e cioè che una situazione può svoltare e trasformarsi in un battito di ciglia prendendo una inaspettata piega, una volta entrati dentro il mood di Tony, allora non dovrebbero esserci più problemi ad ascoltare le proprie sensazioni e con esse le proprie emozioni.
After Life fa ridere? Sì, eccome. Fa piangere? Sì, decisamente. Ma non solo. After Life è capace di scatenare anche collera, preoccupazione e persino paura. Apparentemente senza alcuna logica eppure seguendo quasi una sorta di ciclica ripetitività, in ogni puntata i sentimenti sono sempre gli stessi, stimolati da un’ottima sceneggiatura che non dà mai tregua né si permette di esser ammiccante. In After Life Gervais non cerca il successo facile mettendo in quel momento il bambino malato di cancro. Ogni singolo episodio della vita di Tony raccontato nella serie inglese dimostra che dietro c’è stato un lavoro certosino, a tratti geniale, tipico di chi, come lo stand-up comedian conosce bene il genere umano ed è capace di stimolarne le emozioni più reali, quelle più genuine e per questo più nascoste.
Contare le volte in cui After Life ci ha fatto ridere o ci ha fatto piangere per stilare una classifica e decretare e un’emozione vincitrice sarebbe sminuire il lavoro fatto da Ricky Gervais. After Life, come la vita, sa sorprenderti e spiazzarti. Lo fa nella misura in cui, mentre lo si guarda, ci si rende conto di essere in grado di provare sentimenti che spesso vengono messi un po’ in disparte.
After Life ci autorizza a poterci lasciare andare. A ritrovare quell’emozioni nascoste delle quali, magari, ci vergogniamo anche un po’. Ci fa ridere e piangere quando non dovremmo e non vorremmo, magari in maniera sguaiata o singhiozzando. Ci porta su e giù, come sulle montagne russe, fregandosene altamente di quello che siamo e di quello che magari vorremmo. Esattamente come Tony, After Life, colpisce là dove sa di poterlo e doverlo fare, senza pietà.
Alla fine, nel silenzio elegante della campagna inglese, osservando il ciclo della vita di un piccolo mondo non poi così diverso dal nostro, piangiamo e ridiamo, senza preoccuparci se siano più le volte di una o dell’altra. Perché la risposta, in fin dei conti, non ha poi così importanza.