Se guardi questo video è perché non ci sono più. E non posso dirtelo di persona, troppo imbarazzante. Per te, non per me, ovviamente (Lisa)
Una sola frase ha il potere di riassumere tutto ciò che gira intorno a quell’esperienza squisitamente umana chiamata dolore. After Life è una serie tv che non parla solo di lutto, nonostante il rimando del titolo e la morte di Lisa. In realtà Ricky Gervais (qui altri 3 stand-up comedian che hanno fatto serie tv) mostra tutto ciò che c’è prima della morte o durante o dopo. La trama principale riguarda Tony e la sua esperienza con il lutto, ma subentrano altre vicende che si intromettono nel filone principale. Sono le vicende di persone o fatti completamente scollegati dalla morte di Lisa eppure le girano intorno, a volte la attraversano, altre volte la allontanano.
Normalizzare il dolore
Normale, questa parola così complessa e così abusata. Chi è che decide cosa è normale e cosa non lo è? Di solito il termine si riferisce a ciò che è comunemente accettato, ma il nostro dolore può essere ristretto a dei parametri oggettivi? Io non penso, la nostra sofferenza non è un algoritmo quantificabile. Nessuno può dire se io soffro 10 e l’altro 2 e soprattutto il dolore non si identifica nel quanto ma nel come. È questo che Ricky Gervais ci vuole dire nel suo modo contorto. Che il dolore è la parte più personale di noi, è qualcosa che ci identifica in quanto singoli e non c’è un modo normale o anormale di viverlo perché è un percorso. Tony inizialmente elabora il suo dolore usandolo come un’arma per ferire gli altri, in questo modo normalizza delle azioni che per gli altri sono fuori dal comune. Quando la sua aggressività supera il limite il dolore non è più normalizzato ma cronicizzato, e Tony arriva a comprenderlo cercando poi una nuova normalità. Ciò che aiuta l’uomo a cambiare e ad essere meno aggressivo (anche nei confronti di se stesso) sono i luoghi e le persone che frequenta abitualmente, ma che al contempo sono lontani da lui.
Anormale
Nelle scene di After Life ambientate a lavoro vediamo colleghi bizzarri al limite del parodistico. Lenny è un uomo pigro, un po’ bambinone che sgranocchia mentre lavora al pc, Kath è una donna single sempre elegante che battibecca spesso con Tony. Poi ci sono i personaggi che Tony intervista per il suo giornale: una medium scrittrice di romanzi erotici, ragazzi giovani con talenti discutibili, il postino clochard e poi il personaggio più emblematico della serie, Bryan. Bryan è l’emblema dell’emarginazione sociale, è un uomo che comunica con parolacce, trasandato e fuori dalle righe il suo obiettivo è diventare famoso con un articolo di Tony su di lui. Bryan sfida il politically correct per lanciarci un chiaro messaggio: la sofferenza non si veste firmata né è silenziosa, a volte è fatta di abiti logori e parolacce, di urla e disagio, ma non per questo è meno importante. La cosiddetta anormalità veste tutti i personaggi di After Life di una verità quasi spiazzante nella sua profondità. E il dolore è la colonna portante di questa realtà che esiste intorno a noi, è l’unico elemento che ci accomuna a discapito di tutto ciò che ci divide. Al di là del ceto, del sesso o della professione tutti siamo legati da quel laccio invisibile chiamato dolore che ci tiene ancorati alla parte più umana di noi.
Che ho fatto di male?
C’è una cosa che si può notare nelle storie di ogni singolo personaggio di After life. Nonostante il dolore sia difficile da sopportare e la solitudine li martelli non si lamentano mai davvero. Nessuno di loro si chiede cosa abbia fatto di male nonostante sguazzino nella propria sofferenza. Questo perché nella serie non si parla di una filosofica ricerca del senso della vita, no, loro lottano per una cosa molto semplice che è la quotidianità. Ogni giorno ognuno di questi bizzarri personaggi si alza e compie azioni semplici e fine a se stesse: portare giornali in un carrello della spesa, cambiare casa, giocare a scacchi o uscire a cena. Ogni piccola giornata è una conquista mentre una cosa che a volte diamo per scontato è proprio la nostra quotidianità. Perciò è la semplicità, per Ricky Gervais, la chiave per affrontare il dolore e che consente ai conoscenti, amici o colleghi di Tony di muoversi e non fermarsi a chiedersi il perché del proprio dolore. Come fanno ad accettare tutto questo? È proprio il loro essere outsider che li rende così aperti al dolore, ogni giorno ognuno di loro veste i propri panni con coraggio ed esce a vivere il mondo trasportando carrelli, cambiando casa, giocando a scacchi o uscendo a cena.
Alla fine Tony raggiunge una normalità nell’anormalità grazie alle persone imperfette che incontra. Ma c’è un’unica persona che, invece, lo aiuta a ricordare l’importanza di vivere, Anne la sua amica di panchina.
Anne è una signora che ha perso suo marito e si ritrova sola, ma accetta con saggezza questa condizione naturale della vita che è la morte. Grazie ad Anne Tony capisce la differenza tra accettare e subire ed è così che il protagonista decide di non subire il dolore, ma di viverlo nel momento in cui bussa nella sua mente. Quella panchina gli ha dato la possibilità di prendersi il tempo per vivere la perdita e di andare avanti un dolore per volta, un giorno per volta dando fiducia alla vita.