Se cercate una storia che mano a mano sveli la verità e ve la presenti su un piatto d’argento, Alias Grace non fa per voi. Se invece non siete all’esasperata ricerca di una spiegazione logica a ogni costo, potreste dare una chance alla serie. E ne varrebbe la pena.
Dovuta premessa: la serie si rifà al romanzo omonimo di Margaret Atwood, il quale a sua volta si ispira a un episodio di cronaca realmente accaduto. Questo nome sicuramente non vi è nuovo, poiché la Atwood ha dato vita anche a The Handmaid’s Tale, poi portato sul piccolo schermo da Hulu (qui vi anticipiamo qualche ipotesi sulla terza stagione). Quindi, diciamocelo, già la maternità della storia potrebbe solleticare l’interesse di molti nel buttarsi su Alias Grace. Badate bene però: le due serie hanno in comune solo l’autrice letteraria.
Innanzitutto, la vicenda si sviluppa nel passato, per l’esattezza verso metà Ottocento in Canada. Qui Grace Marks viene condannata all’ergastolo per l’omicidio di un ricco possidente, nonché suo datore di lavoro, e della sua domestica. Il caso, però, è tutt’altro che chiuso: l’opinione pubblica si divide in colpevolisti e innocentisti. Per ovviare a ogni dubbio, Grace viene affiancata da una sorta di “perito psicologo primordiale“, il dott. Jordan, che la interroga affinché si possa giungere alla verità dei fatti. Grace snocciola così gli episodi salienti della sua vita che l’hanno condotta sino a quel momento. Parrebbe dunque che lo spettatore non debba fare altro che godersi la danza dialettica tra medico e paziente. Eppure, nonostante i dettagliati racconti della condannata, lo scopo di Alias Grace non è quello di svelare prove e indizi da presentare a una corte.
Sin dal primo episodio la serie mette ben in chiaro quale sia il suo bersaglio: mostrarci chi è Grace.
La sua vita è sempre stata segnata dalla perdita, in primo luogo della madre, poi della sola e unica amica, della libertà e infine, forse, del senno. Dopotutto, chi riuscirebbe a mantenere la lucidità nelle sue stesse condizioni? Il dott. Jordan è consapevole della fragilità psicologica della sua assistita, così come lo è lo spettatore. Perciò il medico si avvicina alla ragazza con gentilezza e moderazione, come si fa con un animale ferito per conquistarne la fiducia. E in effetti Jordan riesce nel suo intento: Grace si lascia andare a banali confessioni che mano a mano si fanno sempre più intime. Questa sorta di “corteggiamento psicologico” sembra filare liscio. Troppo liscio.
Ogni supposizione pregressa del dottore sembra essere confermata da Grace, la quale intervalla lunghi soliloqui ad altrettanto prolungati attimi di silenzio in cui scruta con scaltrezza lo specialista. Poiché, così come lo psicologo studia il proprio paziente, a sua volta il paziente studia il proprio psicologo. E questo il dott. Jordan sembra esserselo dimenticato.
Il fatto che sia proprio la protagonista a raccontare se stessa dovrebbe già metterci all’erta.
Ormai, infatti, non è più un segreto che il narratore in prima persona sia un soggetto inaffidabile (Legion vi dice niente?). Eppure Grace Marks si presenta con le sembianze innocue di Sarah Gadon, dalla chioma bionda e con la pelle candida. Non ci sarebbe motivo di ritenerla inattendibile. Ma i suoi occhi sono vispi come quelli di una volpe e si fatica a capire se vesta i panni della preda o della predatrice. Come se non bastasse, Grace in prima persona tiene viva l’incertezza, poiché non si scomoda mai nel dichiararsi innocente. Al contrario, le sue continue allusioni e i repentini cambiamenti nel tono di voce fanno sì che la pulce entri nell’orecchio di chi l’ascolta, mettendo continuamente in discussione la credibilità delle sue parole. I dubbi però hanno vita breve e si dissolvono appena Grace torna a sorridere placida, avanzando nei flashback del passato.
Alias Grace non dà risposte, ma promuove interrogativi sempre più insistenti.
Puntata dopo puntata, la serie assottiglia sempre di più la linea di confine che demarca la spartizione tra innocenza e colpevolezza. Grace Marks non è innocua, questo è certo. Aver vissuto un’esistenza di soprusi l’ha portata a costruirsi una maschera, ha imparato a saper difendersi. Magari non per mezzo di coltelli e cappi, ma grazie a una fine sensibilità e all’attenzione che rivolge alle persone intorno a lei. Studiare e capire chi ha di fronte è la sua arma per tutelarsi. In altre parole, Grace Marks è una manipolatrice per sua stessa ammissione:
Ho cambiato qualche dettaglio della storia per adattarla a ciò che volevate sentire. Avevo la sensazione che fosse meglio così.
Pur essendo un tratto certamente ambiguo, la condiscendenza può essere prova incontestabile di omicidio? Forse sì, o forse no. Quel che conta è che Grace si sia rivelata, se non totalmente, almeno nei suoi tratti salienti. D’altronde si tratta di un personaggio complesso con numerose e contraddittorie sfaccettature, il che lo rende probabilmente uno tra i più riusciti in tempi recenti. E per rimanere ancora in linea con le tendenze narrative di oggi, Alias Grace ci offre un quadro psicologico senza soluzioni al caso e senza condanne.
E a me, personalmente, va benissimo così.