A ridosso dell’uscita della seconda stagione di Alice in Borderland, serie tv giapponese fantascientifica, thriller e drammatica creata da Haro Aso per Netflix, è inevitabile pensare all’esagerazione caratteristica di un titolo tanto feroce quanto meritante l’etichetta di survival drama. Le attese sono alte, a quasi due anni dal rilascio della prima stagione, avvenuto quasi totalmente in sordina, soprattutto se paragonata a Squid Game, la cugina sudcoreana il cui primo capitolo ha destato un fenomeno mediale nel mondo seriale come non se ne vedevano da tempo. E’ stata proprio Squid Game a rilanciare l’attenzione dei più verso la stessa Alice in Borderland. Infatti, seppur differenti, le due serie tv sono accumunate da una drammatizzazione ed esasperazione ormai identitarie di molte produzioni asiatiche. E sono questi gli elementi che hanno contribuito a rendere sia Squid Game, che Alice in Borderland, due interessantissimi punti di riferimento nel panorama dei titoli che si distinguono per feroce violenza e tesissima atmosfera thriller e d’azione.
Nello specifico, Alice in Borderland (uscita prima rispetto alla cugina sudcoreana) parte da una realtà ancora più distopica rispetto a Squid Game, e si sviluppa in maniera maggiormente cruenta e spietata.
La storia del giovane protagonista, Arisu, parte da una Tokyo inspiegabilmente vuota. Il silenzio è straniante, ma il caos non tarda ad arrivare. Anzi, l’iniziale confusione vissuta dal personaggio e dai suoi due fedeli amici, è probabilmente uno dei pochi momenti, nella prima stagione, in cui la drammatica crudeltà della serie tv non permea il racconto. Caratteristica immediatamente percepibile, sin dal primo episodio, è proprio la spiazzante freddezza con la quale Alice in Borderland presenta chiunque, senza distinzione di sesso, genere, età e background, per poi riservare a ciascuno un destino raramente brillante e di redenzione. A tal proposito, i toni scuri della storia si articolano in ogni ambiente, dalla regia e fotografia che si muovo attribuendo un’atmosfera tetra alle disavventure di Arisu, alla narrazione che anticipa costantemente scene di estrema violenza e di azione trepidante. I minuti premono incessantemente sulla consapevolezza dei personaggi, consci soltanto di reiterare, il più delle volte, una fine inevitabile. E’ proprio l’esasperazione a cui questi sono portati, stretti all’angolo e senza possibilità di successo, a rendere Alice in Borderland una serie tv che gestisce da maestra un genere ormai, spesso, svilito.
Alice in Borderland sfrutta l’esagerazione con la quale ritrae i tentativi di sopravvivenza, lotta, e lotta per la sopravvivenza, per proporre una storia capace di tenere altissima la tensione e sospendere chiunque col cuore in gola.
Lo stesso cuore in gola che Arisu vive costantemente, è percepibile anche quando non sembra, e si riflette su qualsiasi spettatore. Il giovane disoccupato, appassionatissimo di videogiochi, si trova a vivere quello che per molti sarebbe una sfida da sognare, ma solo se veicolata dallo schermo. Arisu vive in una sorta di videogioco: deve completare una serie di sfide pericolosissime, mortali, per rimanere in vita e proseguire alla scoperta del mistero che ha svuotato Tokyo, e che l’ha proiettato in una sorta di realtà parallela. La verità è celata dietro agli architetti del gioco e dietro ai game master creatori della realtà distopica in cui è intrappolato assieme all’appena conosciuta Usagi. E’ proprio il pretesto da videogioco d’azione, il plot da survival drama e, soprattutto, il fatto che il racconto sia tratto dall’omonimo manga di Haro Aso, a consentire l’estrema libertà espressiva della serie tv Netflix.
L’uso della violenza grafica ha colto riscontri generalmente positivi da parte della critica, pur generando opinioni contrastanti tra gli spettatori tendenzialmente meno propensi a titoli tanto cruenti. Ma è proprio il sapiente impiego e immaginario conferito alle tante, tantissime, scene di scontri corpo a corpo, e di prove mortali, ad attribuire una dimensione originale che permette alla serie tv di distinguersi proprio come fece Squid Game. La vena tesa di Alice in Borderland si riflette in sequenze a tratti splatter, a tratti horror, cariche di sangue, drammaticità e sguardi taglienti. Il dolore, che lacera a seguito di ogni inattesa e ingiusta scomparsa, si proietta nella espressività quasi grottesca dei personaggi che, contro ogni aspettativa, non stona in una narrazione piena di estremismi che funzionano.
Come i grandi anime che animavano gli schermi di Italia 1, e come gli irrinunciabili manga che ormai si caratterizzano per drammatica violenza e cinismo, Alice in Borderland buca lo schermo con dinamiche esagerate animate da protagonisti messi all’angolo. Personaggi quasi caricaturali che visceralmente cercano la salvezza, più che la verità, in un contesto in cui nessuno ha scampo. Alice in Borderland ha origine da un manga, e non si fa problemi a esplicitarlo, anzi ne sfrutta sapientemente gli elementi tradizionalmente distintivi per dare corpo a un racconto in cui l’esagerazione è la forza più assoluta. Che sia visiva, espressiva, drammatica, o grafica; persino nelle scelte e nei plot twist più inattesi e cinici la spregiudicatezza di un titolo del genere è addirittura raffinata. Perchè Alice in Borderland è soprattutto crudele coi suoi personaggi, nessuno escluso. A eccezione del protagonista, sottoposto a un dolore differente, ancora più emotivo e messo alla prova, nessuno è salvo: la vita assume una forma ancora più fragile nella serie tv Netflix. Anche i personaggi apparentemente principali vengono sacrificati (e si sacrificano) velocemente in maniera crudele. Pur con una carica di pathos non indifferente per ciascuna perdita umana, è sconcertante la velocità con la quale giovani caratteri vengono inseriti nella trama e fatti fuori nel giro di qualche episodio.
L’esagerazione di Alice in Borderland parla chiaro: mai affezionarsi a nessuno.
Alice in Borderland, nel suo essere esagerata, carica e feroce, non si affeziona a nessuno, e ci insegna a non legarci ad alcun personaggio. Altrimenti, la ferità può essere lacerante. Purtroppo, nel suo essere uno dei più violenti e assurdi, ma coerenti, survival drama degli ultimi anni, lo show giapponese sembra intenzionati a far morire malamente chiunque in scontri all’ultimo sangue fatti di tensione, calci rotanti, sfide mortali scandite in tempi brevissimi, e conti alla rovescia che incalzano sui poveri giocatori senza scampo. All’ultimo grido di dolore, rabbia e ansia, l’insicurezza, la disperazione e la paura di ciascun personaggio sono tangibili ed esperibili in prima persona. Lacrime e sangue, rivalsa e vendetta, esasperazione estrema del dolore individuale che diviene comune, in un flusso che coinvolge chiunque e crudelmente si prende gioco dell’animo umano.