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La creatività tipicamente orientale di Alice in Borderland

Alice in Borderland
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ATTENZIONE: L’articolo contiene spoiler sulla prima e la seconda stagione di Alice in Borderland!

Alice in Borderland è arrivato in Italia grazie alla piattaforma Netflix nel 2020, ottenendo subito un buon consenso da parte degli spettatori; è innegabile tuttavia che sia stato letteralmente riscoperto a seguito di una più nota produzione orientale, e parliamo naturalmente di Squid Game al quale molti lo hanno paragonato, nonostante la serie sia di provenienza coreana mentre Alice in Borderland è una produzione nipponica. L’associazione tra i due show tuttavia è abbastanza fuorviante; hanno sicuramente dei punti in comune, ma si distinguono allo stesso tempo per molti elementi, tra cui il comparto creativo. Se la Squid Game viene ricordata principalmente per l’aspetto visivo, un’estetica scenografica basata sul contrasto tra i colori pastello e rassicuranti delle arene di gioco macchiate dal sangue dei giocatori, Alice in Borderland non denota nulla di simile.

E’ certo che Alice in Borderland ha saputo distinguersi ed affermarsi in una propria dimensione televisiva, e non a caso.

Alice in Borderland
Alice in Borderland (640×360)

Alice in Borderland è tratto dallo shōnen manga di Haro Aso, pubblicato in Giappone nel 2010 e pubblicato sulla rivista Shōnen Sunday Super. Dal manga è stata tratta poi una serie OAV (letteralmente Original Anime Video, ossia gli anime creati per l’home video) di tre episodi, inedita in Italia, prima di divenire la serie di successo che conosciamo. L’ambientazione distopica e la caratterizzazione dei personaggi, soprattutto del protagonista Arisu, sono stilemi abbastanza classici nel panorama dei manga shōnen, ossia pensati principalmente per un pubblico maschile adolescente. La serie è una trasposizione abbastanza fedele del manga, e per sua natura risulta essere fruibile anche a quella fetta di pubblico che non è solita dedicarsi alla lettura dei fumetti giapponesi.

Il parallelismo con l’opera inglese Alice in Wonderland, romanzo di Lewis Carrol del 1865, è evidente sin dal titolo, e non è una scelta casuale: i giapponesi hanno sempre dimostrato una grandissima fascinazione per la cultura occidentale, sicuramente reciproca. Prodotti come Alice in Borderland si dimostrano difatti spesso dei veri e proprio punti di incontro tra due culture così distanti, permettendo all’una di riscoprire i lati nascosti dell’altra. E’ evidente quanto la serie puntasse ad un pubblico internazionale, senza voler snaturare il contesto sociale e culturale nel quale la storia è ambientata e che permette ai personaggi uno sviluppo coerente e credibile.

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Alice in Borderland (640×360)

Le premesse dell’opera non sono certo originalissime: l’idea del gioco al massacro in un ambientazione distopica, tuttavia, non è nata da Hunger Games come in moti pensano. Tutt’altro: le origini del concept sono da attribuire a molti autori ed opere letterarie antecedenti, tra cui spicca il romanzo Battle Royale dello scrittore giapponese Koushun Takami e conosciuto in occidente principalmente per la sua trasposizione in manga (dello stesso autore) e per il film del 2000, diretto da Kinji Fukasaku film preferito da Quentin Tarantino secondo quanto dichiarato dallo stesso regista durante una intervista. La storia di Alice in Borderland riprende molti degli stilemi del romanzo; un gruppo di persone ‘rinchiuse’ in un contesto nella quale sono costretti ad uccidersi tra loro, con un protagonista non particolarmente popolare e apparentemente incapace di sopravvivere in un ambiente così ostile. Fin qui, nulla di originale dunque: sembra difatti di leggere la trama di moltissimi film, libri e serie tv, tra cui, di nuovo, Squid Game.

Alice in Borderland trova forza nel ritmo al cardiopalma della maggior parte degli enigmi che Arisu è costretto a risolvere.

Arisu dimostra sin dalle prime immagini del primo episodio di essere un ragazzo che semplicemente non riesce a trovare espressione per la sua intelligenza. Nella Tokyo attuale, dove il rigore scolastico e lavorativo trova contrasto nei colori e il caos di quartieri come Shibuya, sembra non esserci posto per lui e i suoi fedeli compagni Chōta e Karube, outsiders come lui. Il Giappone non è un luogo facile dove vivere; tutti, soprattutto i giovani, pagano lo scotto delle grandissime aspettative della società, tanto che il tasso di suicidi è tra i più alti del panorama mondiale. In un simile contesto sociale, non è difficile comprendere dunque la reazione di alcuni dei personaggi che si troveranno costretti a partecipare ai giochi. In un luogo in cui non esiste più nulla, non il giudizio, non il dovere, solo la sopravvivenza, il rigore viene abbandonato e si è liberi di vivere appieno la propria natura. Non c’è alcun legame con tutto ciò che si è stato nella ‘vita precedente’; nulla ha più importanza. Qui le uniche regole da rispettare sono quelle dei games.

Alice in Borderland
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La seconda stagione della serie ha tuttavia, e qui è proprio il caso di dirlo, rimescolato le carte in tavola. Ci riferiamo naturalmente al finale della serie, sorprendente, profetico. Il momento in cui comprendiamo che tutti gli avvenimenti cui abbiamo assistito, sin dalla prima stagione, corrispondono ad un unico minuto della vita reale. Un minuto nel quale il cuore di Arisu, assieme a quello degli altri ‘giocatori’ ha smesso di battere subito dopo l’impatto di un meteorite su Shibuya. Può dunque la vita cambiare in un solo istante? Si può ritrovare la gioia, l’ambizione, un motivo valido per andare avanti, in un singolo minuto? La serie, così come il manga, sembra dirci di sì. Arisu è sopravvissuto, non ha mai mollato, non ha mai rinunciato a vivere pur non avendo apparentemente motivi per farlo. Ha riscoperto la sua potenza, la forza che probabilmente nemmeno sapeva si annidasse dentro di lui, ha mostrato resilienza e perseveranza ed è stato infine premiato con una seconda occasione. Con la possibilità di ricostruire da zero quella stessa, inutile vita che il meteorite ha letteralmente spazzato via.

Proprio nelle ultime sequenze della seconda stagione vediamo il riavvicinamento sul piano ‘reale’ tra Arisu e Usagi, che nonostante abbiano dimenticato ciò che è successo nella dimensione dei game hanno la percezione di essersi già conosciuti. Il rapporto tra i due personaggi si è basato sin da subito su una grande sintonia; Usagi, così come il ragazzo, nel mondo reale viveva in una dimensione che sembrava condividere solo con suo padre, tagliando fuori il resto del mondo. Entrambi condividono quel senso di inadeguatezza che li porterà poi ad avvicinarsi durante i giochi, trovando un compagno con cui condividere il viaggio (fisico e psicologico) verso la vittoria e la sopravvivenza. Usagi rispecchia perfettamente il classico stereotipo della ragazza oggetto del desiderio del protagonista maschile canonico degli shōnen manga: tosta, silenziosa, riservata, particolarmente intelligente o abile negli sport, di una bellezza classica e discreta, ma dal carattere forte. Abbiamo visto moltissimi personaggi di questo stampo nel corso degli anni, e difatti come anticipato precedentemente non è nell’originalità delle basi che troviamo una spiegazione al successo di Alice in Borderland. Anche Chishiya, ad esempio, è il classico tipo cool che riesce a rimanere inspiegabilmente freddo e distaccato anche nei momenti più caotici e nei giochi più emotivamente strazianti; non dimostra mai alcun tipo di coinvolgimento emotivo, segue il suo percorso da solo e lo fa senza cattiveria. Impossibile non associarlo, quindi, a personaggi dello stesso stampo ben più celebri, primo fra tutti il Sasuke di Naruto.

Per ogni protagonista di Alice in Borderland si attinge dunque ad una serie di stereotipi già pronti, preimpostati, che tuttavia qua si relazionano tra loro in modo sempre convincente.

Alice in Borderland
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Alice in Borderland non può e non deve essere, quindi, ricordato in quanto prodotto innovativo. Ciò non significa che la serie sia sopravvalutata; seppur basato su una formula già rodata in passato, lo show dimostra che anche per i paesi occidentali è possibile lasciarsi intrattenere da scelte narrative e di resa tecnica molto distanti per tradizioni e contesto culturale. Inoltre, e non è cosa da poco, grazie ad una accurata regia e ad una fotografia accattivante la serie riesce ad intrattenere sia il pubblico innamorato dei prodotti puramente action che quello più interessato al lato emotivo e alle reazioni, molto credibili, dei singoli personaggi durante i game, che rimangono l’elemento più convincente della storia. Ciò che è certo è che Alice in Borderland, così come altri prodotti di nicchia, può vantare di essersi fatta amare anche da chi non conosceva le strade di Shibuya né aveva mai letto un manga o visto un anime in vita sua. Una serie che ha saputo conquistare l’attenzione ed il cuore di molti, anche grazie ai riferimenti di una società che sembra tanto distante da noi – ma che, forse, non è poi così lontana.

Se vi è piaciuta l’ambientazione distopica di Alice in Borderland, dovreste assolutamente recuperare queste 5 serie tv!