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Alice in Borderland è una serie dieci volte più appassionante di Squid Game, ed è più completa

Alice in Borderland
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In concomitanza con l’uscita del reality di Squid Game, espansione di un prodotto dal successo planetario, non possiamo esimerci dal ricordare e sponsorizzare la serie che l’ha preceduta (e per tanti versi superata). Alice in Borderland, contrariamente al “limitato” successo ottenuto, è uno show dalla qualità indiscutibile, capace di tenere incollati allo schermo, intrigare e far immedesimare come poche serie del panorama attuale. Un anno fa si concludeva la seconda stagione con un finale sorprendente (e chiarificatore) che lasciava uno spiraglio per una possibile terza stagione. Recentemente questo spiraglio è diventato una vera e propria porta spalancata quando è arrivata la notizia ufficiale: Alice in Borderland è stata rinnovata, Netflix annuncia la 3a stagione. Quale migliore occasione, allora, in vista del futuro e probabile ultimo atto per recuperare questo gioiello della serialità.

Un buon motivo per iniziarla? Se avete apprezzato Squid Game impazzirete per Alice in Borderland.

Se Squid Game non vi ha convinto a pieno, bene, anche in questo caso la soluzione è Alice in Borderland. Questa produzione giapponese non ha solo preceduto di un anno l’uscita di Squid Game ma ne ha anche anticipato tematiche e formato. Alla base dello show c’è infatti una vera e propria competizione a eliminazione con conseguenze letali per ogni concorrente. Non vincere il “game” significa finire folgorati da un misterioso raggio che cala dal cielo quasi fosse una punizione divina. Ma partiamo dall’inizio, partiamo da Arisu, Chōta, Karube, tre amici nerd e ai margini della società. Sullo sfondo è la Tokyo tentacolare che siamo abituati a vedere in film e serie tv. O almeno lo è nei primi minuti di Alice in Borderland perché in un istante, dopo alcuni fuochi d’artificio che squarciano il cielo della città, tutto cambia: Tokyo si fa d’improvviso silenziosa e tutto resta sospeso. La maggior parte degli abitanti è sparita senza un’apparente ragione.

Stagione 1
(640×360)

I pochi “sopravvissuti” si trovano a essere coinvolti in giochi mortali, annunciati da un altoparlante, per garantirsi la sopravvivenza. Nel caso si sottraggano il loro destino è segnato: un laser cala dal cielo e li trapassa. In un mondo distopico in cui la sola vera regola è la lotta per la sopravvivenza per Arisu e gli altri non c’è molta scelta. Ogni game ha un diverso livello di difficoltà rappresentato da una carta da gioco in cui il seme, si scoprirà, rappresenta il “tema” (forza fisica, resistenza, gioco di squadra, …). La serie parte quindi da un genere ben consolidato, quello survivor già diffuso in videogame e fumetti e trae spunto dall’omonimo manga a cui si rifà in maniera piuttosto coerente.

Nello stesso tempo Alice in Borderland ha l’inaspettato e significativo merito di introdurre tutto un universo fatto di interrogativi etici e morali che la elevano al di sopra del genere di appartenenza. Come in Squid Game, ma più convintamente e approfonditamente, i giocatori si trovano di fronte a scelte che mettono continuamente a rischio i propri valori e convinzioni. Uno spazio fondamentale è dedicato alle parti dialogate che aumentano fino a diventare dominanti nella seconda stagione. Il confronto tra giocatori e rivali, ognuno con una sua straordinaria personalità e un background personale unico, risulta occasione per mettere a confronto pensieri diversi, spesso antitetici. La serie non ci dà mai una risposta unica, non indirizza lo spettatore verso una morale risolutiva perché in una Tokyo dominata dalla distopia, in cui in gioco c’è la propria vita, è difficile mantenere l’integrità.

Non c’è condanna dei personaggi, ma interesse per le loro scelte, curioso sguardo indagatore su ognuno di essi.

In un mondo in cui tutto è inevitabilmente relativo (del resto, non lo è anche in questo di mondo?) solo Arisu proverà a tenere insieme una parvenza etica, aggrappato ai suoi dolori ma anche e soprattutto alle sue convinzioni. Di contro, noi spettatori diveniamo una sorta di perverso pubblico pagante che assiste per proprio divertimento alle vicissitudini di tutti i protagonisti. Ma non fatevi ingannare, Alice in Borderland ci chiama presto a prendere parte a quello stesso gioco, a scendere nell’arena e a fare le nostre scelte pagandone le conseguenze. In questo senso centrale nella serie, tanto quanto i dialoghi che domineranno la seconda parte dello show, sono i “game” stessi. Ognuno di essi è occasione per demolire una certezza, per scardinare un nostro ipocrita convincimento. Ed è proprio qui che rispetto a Squid Game c’è un abisso.

Alice in Borderland
Un “game” in Alice in Borderland (640×360)

Ogni gara infatti ha un livello di originalità, tensione ed effetto sorpresa davvero unici. E lo capiamo già dai primi episodi con rivolgimenti incredibili e cambi di rotta che mai avremmo creduto possibili. Alice in Borderland scardina le regole della settima arte sfruttando i vantaggi di una struttura a episodi. Se siete convinti di qualcosa, beh… Alice in Borderland è pronta a farvi ricredere. Non ci sono privilegiati nella serie. Nessuno risulta del tutto intoccabile, eroico, inscalfibile. È come se Haro Aso (autore del manga) e Shinsuke Sato (regista della serie) abbiamo plasmato ogni character, definendone personalità, punti di forza, debolezze, psicologia ma poi l’abbiano lasciato libero. Libero di muoversi su una scacchiera in cui è costantemente chiamato a fare la mossa giusta per non finire mangiato.

Ci sono pedoni, cavalli, re e regine. Ci sono valorosi combattenti, arrivisti senza morale, dubbiosi esseri umani. C’è di tutto in Alice in Borderland e potenzialmente per ognuno di loro c’è la possibilità di andare avanti se ne avranno la forza, l’intelligenza e la capacità di adattarsi. Aso e Sato ci appaiono così due diabolici demiurghi che sfruttano un apparentemente incomprensibile universo distopico come teatro di studio per i caratteri umani. In tutta la serie si succedono figure iconiche, talmente ben caratterizzate da rimanere irrimediabilmente impresse nella memoria.

C’è uno studio minuzioso non solo della trama, che non stanca mai e sa rinnovarsi incredibilmente di volta in volta, ma anche e soprattutto dei concetti filosofici che vengono veicolati.

Alice in Borderland agisce su più livelli ed è su questi diversi livelli che lo spettatore può sbizzarrirsi: ci si può fermare in superficie e apprezzare comunque una serie tv di eccellente intrattenimento con colpi di scena pressoché imprevedibili e rompicapi da sbrogliare. Si può procedere più in profondità e appassionarsi anche ai protagonisti, al loro passato (indagato con alcuni flashback), all’icasticità dei loro tratti. E se scendiamo ancora, finire per concentrarsi sugli interrogativi etici che solleva, sulle scelte che la serie ci invita a fare in prima persona e sull’indagine psicologica che raggiunge il suo culmine nelle battute finali della seconda stagione con un intero game tutto giocato sulla tenuta psico-fisica di due rivali.

Game Master
Il “Cappellaio”, leader della Spiaggia (640×360)

Ma incredibilmente Alice in Borderland non si esaurisce qui. Nella prima stagione trova spazio anche l’indagine sociale quando alcuni giocatori provano a creare un traballante equilibrio fondato sulla cooperazione e sull’articolazione in classi con specifici compiti. La “Spiaggia” è un vero e proprio sogno utopista che mostra però alcune crepe e giri a vuoto, pronto a sgretolarsi ai primi segni di maretta. Non sarà il solo inserto di analisi comportamentale presente nella serie: le relazioni che si instaurano tra i personaggi, i dialoghi capaci di occupare ampi spazi dell’episodio, l’evoluzione e il cambiamento nelle relazioni, di pari passo con l’avanzare della vicenda, fanno di Alice in Borderland una finissima opera critica. I meriti in gran parte sono del manga che, come spesso accade per le opere giapponesi, ha dato espressione a un disagio personale e sociale diffuso e lo ha fatto con grande sensibilità.

Ma non si può non dare riconoscimento anche al regista Sato che è perfetto nella scelta degli attori (pensiamo solo a Shuntarō, interpretato da Nijirō Murakami o a Tomohisa Yamashita) e nella rielaborazione di trame e dialoghi. Il risultato è un racconto che incredibilmente mantiene un ritmo forsennato e coinvolge a trecentosessanta gradi. Ma allora come mai Alice in Borderland non ha fatto fortuna? Ve lo state chiedendo, lo so.

In realtà la serie appena una settimana dopo la sua uscita vantava già diciotto milioni di spettatori, non certo roba da poco.

Ma neppure comparabile al successo planetario di Squid Game. E allora, cosa non ha funzionato? Distribuzione Netflix, 190 paesi toccati, se proprio volessimo trovare le ragioni che hanno portato Squid Game a trionfare a un anno di distanza dall’uscita di Alice in Borderland forse dovremmo guardare all’iconicità di alcuni elementi. Squid Game in alcuni giochi, seppur elementari e intuitivi, presenta oggetti feticcio che hanno catturato lo spettatore e hanno contribuito alla viralità della serie: non c’è stato angolo dei social che non esponesse con orgoglio la propria versione dei dalgona biscuits provando a replicare il gioco di rompere il biscotto preservando la figura incisa.

Alice in Borderland
Tomohisa Yamashita in uno dei ruoli più iconici della serie (640×360)

È solo un esempio e ne potremmo aggiungere a decine: dalle tute bianco-verdi alle stanze dei giochi, passando per gli abiti delle guardie mascherate. Insomma c’è maggiore immediatezza e iconicità senza mancare di un implicita critica alle disuguaglianze sociali. Alice in Borderland viceversa appare più caotica, dispersiva, meno d’impatto e forse troppo arzigogolata. Ma quelli che per il pubblico mainstream possono risultare difetti per uno spettatore più desideroso di tensione, intrecci e giochi mentali diventa uno straordinario punto a favore. E a noi, in attesa trepidante della terza stagione, va benissimo così.