Amazon Prime Video è tra le piattaforme di streaming più valide degli ultimi tempi. Ha sfornato prodotti straordinari, ma come succede anche ai migliori, talvolta non ha fatto le scelte migliori in quanto a scelta dei contenuti da proporre. Da Plurals, serie del 2020 a Hunters fino ad arrivare a Crisis in Six Scenes, abbiamo sfogliato il catalogo della piattaforma e stilato una lista delle 10 peggiori serie tv attualmente presenti su Amazon Prime Video.
1) Plurals
In merito a questa serie c’è tanto da dire: innanzitutto è inguardabile, è fisicamente impossibile seguire questa narrazione senza sforzarsi di farlo. In un mal riuscito tentativo di guadagnarsi l’aggettivo “neorealista”, questi geni del male hanno deciso di girare la serie interamente in formato 9:16, quello degli smartphone per farvi capire meglio. L’hanno definita innovativa, smart-series, ma in realtà è solo un tentativo meno che mediocre di raccontare il mondo adolescenziale cercando di restituire un ritratto veritiero di questo periodo. Missione fallita.
La recitazione è di basso rango, una di quelle cose così inguardabili che ti fanno rimpiangere il livello di recitazione dei tuoi compagni delle elementari o quelle degli attori dei musical nei villaggi turistici. Non sarebbe giustificabile nemmeno se gli attori al suo interno non fossero professionisti.
Per non parlare, poi, della fastidiosa visione in 9:16. Siamo abituati a guardare Stories su Instagram, Tik Tok e Reels, ma una narrazione che dura per più di 15 secondi in quel formato è insopportabile. È una continua ed estenuante attesa del momento in cui si tornerà al formato 16:9, ma non accade. Persino la partecipazione di Serena Autieri non è servita a rimediare ai terribili dialoghi e alla sovrabbondanza di cliché ormai insostenibili e vecchi come l’origine del mondo.
È un brutto tentativo di imitare Skam Italia, tentativo che poteva essere tranquillamente risparmiato.
2) Made In Italy
Quello che poteva essere un viaggio nella storia dell’alta moda italiana, si è trasformato nell’ennesima fiction di prima serata che strizza fin troppo l’occhio a Il diavolo veste Prada pur non riuscendo neppure minimamente a raggiungere la bellezza e l’intensità del film di David Frankel. Avrebbe potuto essere il racconto di una tradizione e di una eredità di cui il nostro paese va fiero, una medaglia d’oro sul petto dell’Italia. E invece no, è il racconto frustrato e non proprio incoraggiante della vita di una ragazza che si approccia al mondo della moda e che – guarda caso – è il talento estremo di cui il mondo della moda e dell’editoria aveva bisogno e di cui non può fare a meno.
Mancano figure che potevano essere centrali e d’ispirazione come quella di Franca Sozzani, la direttrice di Vogue. Un volto iconico se pensiamo al mondo dell’editoria e della moda. E la protagonista, Irene, è proprio una giovane giornalista che negli anni ’70 lavora nella rivista di moda fittizia Appeal. La Sozzani proprio negli stessi anni cominciava la sua vita lavorativa a Vogue, partendo da Vogue Bambini il che ricorda anche una delle vicende di cui è protagonista Irene in Made In Italy.
Allora, se il fine è quello di raccontare il “Made in Italy“, se l’obiettivo è quello di mostrare le eccellenze della creatività e dell’artigianalità italiana, allora questa serie ha sbagliato tutto. Troppo romanzata, troppo vaga, troppo concentrata sulla vita privata della protagonista, non è il ritratto che ci saremmo aspettati del mondo della moda italiana.
3) Tutta colpa di Freud
La serie racconta le vicende di Francesco, uno psicanalista divorziato con tre figlie che ha cresciuto praticamente da solo. C’è Sara che sta per sposarsi con un uomo, ma lo tradisce con una donna; Marta, una ricercatrice universitaria sempre sull’orlo di un esaurimento nervoso e che frequentava in segreto un professore sposato; e infine c’è Emma, la più piccola che ha finito il liceo e che come i suoi coetanei è ossessionata dall’immagine social della sua vita. L’attacco di panico di Francesco e le successive circostanze costringono le tre figlie a tornare a casa e il padre ad andare lui stesso in terapia.
Trasformare un film in una bella serie non è semplice. Sarà che con Immaturi – La serie Rolando Ravelli era riuscito a superare o quantomeno eguagliare il film di Paolo Genovese, ma questa volta – come Icaro – ha volato troppo vicino al sole.
Anche nel caso di Tutta colpa di Freud la serie segue le vicende dell’omonimo film di Genovese, ma stavolta Ravelli non è riuscito a rendere la storia altrettanto interessante. Partendo dal cast che fatta eccezione per Max Tortora nel solito ruolo del caciarone romano è sempre formidabile, gli altri lasciano a desiderare partendo da Bisio che restituisce un’interpretazione piuttosto mediocre e finendo alle tre interpreti delle figlie. La trama ha del potenziale, ma la serie è scritta e recitata veramente male.
Dopo le belle serie italiane degli ultimi tempi L’amica geniale, Zero e tante altre ancora, tornare a serie di questo tipo, le classiche serie tv da prima serata di Canale 5 del 2008 è un po’ triste.
4) Beat
Questa serie tedesca racconta le vicende di Beat, soprannome di Robert Schlag, un ragazzo che lavora in un famoso locale techno di Berlino. Grazie alla sua conoscenza e alla sua esperienza della scena techno berlinese, fatta di eccessi, sostanze stupefacenti e divertimento, il ragazzo viene reclutato dai servizi segreti europei per smascherare e sdoganare un traffico di droga importante. Beat si muoverà nella scena dei club berlinesi sicuro di sapere cosa lo aspetta, ma presto realizzerà che non è così e grazie a questa avventura ritornerà inevitabilmente a fare i conti con i demoni del suo passato che continuano a tormentarlo anche nel presente.
Il problema di questa serie, a parte la mancanza di colpi di scena che anestetizza lo spettatore e non lo esalta, è che cerca di essere tutto, troppo e alla fine è poco più che niente. Non è una serie che rimane impressa, che cattura l’interesse di chi guarda. È qualcosa che se ti trovi a vedere per caso, la guardi ma più che altro per la colonna sonora e la musica che per la trama stessa. Forse sette episodi da un’ora non sono abbastanza per una trama così piena e complessa e soprattutto non si prestano ad una visione in binge watching che altrimenti sarebbe troppo pesante e sfiancante.
5) Swamp Thing
La DC Comics di solito sa come confezionare delle serie tv decenti che riescono a fidelizzare il pubblico abbastanza da durare più di una sola stagione, ma questa volta – con Swamp Thing – non sono riusciti a farlo. Seppure la ragione basilare riguardi le divergenze creative tra la Warner Bros e la DC Comics, possiamo tranquillamente affermare che questa serie non è neppure minimamente al livello delle altre produzioni DC dello stesso periodo.
Basti pensare a Titans o a Doom Patrol ed ecco che Swamp Thing fa la sua brutta figura. Il problema principale è che è incredibilmente ed estremamente banale. I suoi personaggi sono banali e la trama è debole. Per non parlare di quanto sia faticoso seguire la narrazione incredibilmente noiosa. Lo splatter tende a risvegliare un po’ lo spettatore e lo fa provando a collocarsi nel genere horror, ma mantiene questa linea solo per due episodi per poi crollare nell’abisso della noia e del cliché più assoluto. Insomma, è facile capire perché non abbia raggiunto nemmeno il traguardo della seconda stagione.
6) The Widow
Anche The Widow è vittima della peste delle serie tv, la noia. La storia è piuttosto basilare per un thriller. Georgia Wells è una donna inglese che crede che suo marito sia morto tragicamente in un incidente aereo. A distanza di tempo, al telegiornale, durante un servizio che raccontava una rivolta in Congo di qualche giorno prima, Georgia riconosce suo marito nelle immagini. Perciò, giunta in terra africana, la donna si mette sulle tracce del marito assieme a due aiutanti, sperando di riuscire a capire chi è veramente l’uomo che amava.
Purtroppo tutte le storie raccontate in The Widow non riescono a coinvolgere lo spettatore, sono sempre troppo banali, sconnesse dalla trama o trattate in modo troppo frettoloso. Inoltre la recitazione è piuttosto mediocre, ma non è totalmente colpa degli attori quanto più di una trama trattata superficialmente che ha dei picchi di mediocrità solo grazie a qualche raro approfondimento della psicologia dei personaggi, ma sostanzialmente la pesantezza della narrazione fa da padrona rovinando anche le interpretazioni.
7) Hunters
Hunters, la serie di David Weil, è un thriller racconta le avventure di un gruppo di vigilanti che cacciano i nazisti che cercano di creare un Quarto Reich nell’estate del 1977, ma lo fa in una chiave semplicistica che strizza l’occhio agli eroi e agli antagonisti dei fumetti. Hunters dal punto di vista estetico propone, infatti, un taglio da fumetto con i suoi colori vivaci e le introduzioni dei personaggi, ma è una scelta che a lungo andare stanca e che rischia di sembrare una parodia o quantomeno uno scimmiottamento del genere che sta cercando di tributare.
Un altro problema di Hunters è che ha tanto potenziale, ma non ha sfruttato a dovere la scrittura dei personaggi. Se da una parte ce ne sono due ben strutturati, interessanti, studiati che sono quelli di Meyer Offerman (Al Pacino) e della detective Morris (Jerrika Hinton), dall’altra ce ne sono altri troppo superficialmente pensati. Lo spettatore riesce a percepire le loro potenzialità, ma non gli viene dato abbastanza tempo, né spazio per farsi conoscere adeguatamente e per superare – dunque – la soglia della superficialità.
Un’altra questione che va a discapito di Hunters sono le occasionali sequenze musicali. La prima domanda che viene spontanea è: sono un tentativo di alleggerire il tema pesante di Hunters? Qualunque sia la risposta a questa domanda, una cosa è certa: i toni mutevoli e la narrazione conflittuale limitano severamente la possibilità che Hunters (qui cosa non ha funzionato nella serie) riesca a emozionare o a entusiasmare lo spettatore, figuriamoci mantenere la sua attenzione.
8) Crisis in Six Scenes
E dopo Hunters arriviamo a un’altra serie di cui si è sentito parlare parecchio. All’annuncio di questa Crisis in Six Scenes, tutti aspettavano di vedere con ansia cosa avrebbe sfornato Woody Allen al suo debutto seriale: o avrebbe confermato la sua genialità oppure no. Questa volta, non è andata come si sperava. Lo stesso Allen prima dell’inizio delle riprese, aveva affermato di non essere contento del prodotto. Purtroppo, proprio come aveva previsto, nemmeno il pubblico lo è stato.
Il problema principale è che Crisis in Six Scenes è più un film che una serie. Non si conforma ai canoni del racconto seriale e perciò il pubblico non l’ha gradito particolarmente. Siamo alla fine degli anni ’60 e la storia è quella dei coniugi Munsinger, interpretati da Woody Allen ed Elaine May, il cui equilibrio viene stravolto dall’arrivo di Lennie Dale, interpretata da Miley Cyrus, che influenza la vita del resto dei personaggi per via del suo carattere anarchico e rivoluzionario. La storia in sé non è nemmeno una delle migliori o delle più memorabili dell’universo Alleniano.
Allen avrebbe potuto fare di più, ma probabilmente perché non si sentiva a suo agio con la forma televisiva – come lui stesso aveva dichiarato – non è riuscito a ottenere un prodotto di cui né lui, né il pubblico sia rimasto soddisfatto.
9) Too Old to Die Young
E dopo Hunters e Crisis in Six Scenes, è arrivato il momento di Too Old to Die Young. La serie di Nicolas Winding Refn racconta le vicende di un Martin Jones, un poliziotto in lutto – interpretato da Miles Teller – che si imbatterà assieme all’assassino del suo collega in un mondo criminale di sicari della classe operaia, soldati della Yakuza, assassini del cartello inviati dal Messico, capitani della mafia russa e bande di assassini adolescenti.
Quando si pensa a Nicolas Winding Refn si pensa a film come The Pusher, Drive, Solo Dio perdona, The Neon Demon, si pensa al suo mondo al neon e al suo marchio di fabbrica Noir. Probabilmente tutti si aspettavano un altro capolavoro dal regista danese, ma le aspettative non sono state soddisfatte. Per carità, i tratti stilistici del regista ci sono tutti, ma l’estenuante durata di questa serie è insostenibile. Se fosse stato un film, probabilmente avrebbe avuto un esito decisamente migliore, ma tredici ore della stessa identica storia sono proprio impossibili da reggere.
Scene che si dilungano all’infinito, bellissime dal punto di vista estetico, ma difficili da digerire proprio per l’inspiegabile lunghezza. A volte quel modo di dire inglese calza a pennello: less is more. Too Old to Die Young non aveva bisogno di tutto questo tempo e francamente non è proprio il prodotto migliore da guardare per avvicinarsi per la prima volta al cinema straordinario di Nicolas Winding Refn.
10) Hand of God
E per concludere questa lista, dopo Hunters, Crisis in Six Scenes, Too Old to Die Young e le altre, arriva Hand of God. Questa serie segue le vicende di Pernell Harris, interpretato da Ron Perlman, un giudice corrotto che soffre di un esaurimento nervoso e che arriva a credere che Dio lo stia costringendo su un percorso da vigilante. Crede che gli abbia affidato il compito di infliggere giustizia. Diventa membro di una chiesa chiamata Hand of God, che si rivela essere una setta pericolosa e comincia la sua crociata partendo proprio dall’uomo che ha rovinato la sua famiglia.
Nonostante l’episodio promettesse bene, la trama di Hand of Good, un po’ come quella di molte serie di cui abbiamo parlato finora come Hunters, comincia presto a mostrarsi debole, talvolta inefficace forse per paura di toccare o approfondire temi necessariamente scottanti. Ma se si decide di scrivere un prodotto che parla di fede, allora bisogna essere disposti a cimentarsi nell’approfondimento di questa tematica nelle sue tante sfaccettature. Partendo proprio dall’avvicinamento, alla conversione fino ad arrivare al fanatismo religioso del protagonista e perché no al significato di redenzione e di tutti quei valori che la religione sciorina.
Oltre a questo ci sono molti elementi che indeboliscono la trama e i personaggi stessi come – ad esempio – gli insulsi errori commessi dal protagonista che da giudice dovrebbe essere quantomeno a conoscenza delle procedure della polizia, ma che nei suoi momenti da vigilante fa errori banali, troppo stupidi per qualcuno che ha passato la sua vita a condannare gli altri proprio beccandoli su questi dettagli. Insomma, Hand of God è una serie piena di potenziale che purtroppo non ha saputo giocare bene le sue carte e che continua a sparire nell’immensità dei prodotti presenti su Amazon Prime Video.