Attenzione: evita la lettura se non vuoi imbatterti in spoiler di Saltburn
Emerald Fennell, già nota ai più per la regia del film Premio Oscar Una Donna Promettente ma anche per l’interpretazione di Camilla nella serie The Crown, ha creato un altro piccolo gioiello di cinematografia. Saltburn è uscito il 22 dicembre 2023 su Prime Video e ha già conquistato tutti, o quasi. Quello che in prima battuta convince del film è che non è di facile comprensione: bisogna quantomeno rifletterci qualche ora dopo averlo visto, e va benissimo così. Per capirne l’essenza ma anche il significato più complesso che si cela dietro ad una apparente storia di ossessione d’amore. La regista britannica, con Saltburn più che mai, ha voluto mettere in primo piano la morbosità, la complessità e la versatilità dell’essere umano. Il suo protagonista, Oliver, interpretato da un bravissimo Barry Keoghan, è scritto per rappresentare la quintessenza del caos umano; è dolce ma anche ossessivo, è ingenuo ma anche furbissimo, è solo ma è anche spietato. Saltburn, ennesimo successo di distribuzione di Prime Video, è un film che va analizzato con calma, riflessione e razionalità. Perché se ci si dovesse lasciare andare all’emotività, ci si perderebbe in un labirinto di sensazioni diverse che intrappolerebbe chiunque. Potrebbe definirsi un thriller, un dramma e persino un horror romantico; sarebbero tutte definizioni corrette e tutte definizione sbagliate.
Saltburn, infatti, è un film molto complicato da inquadrare in un genere preciso perché, come il suo protagonista Oliver, ha mille sfaccettature e tantissime caratteristiche diverse. Quello che cogliamo dalla prima inquadratura è che potrebbe essere una storia d’amore tra Oliver e il soggetto della sua apparente ossessione, Felix (Jacob Elordi). Vediamo gli occhi dolcissimi di Oliver perdersi nello sguardo di Felix, poggiarsi sul suo corpo e immaginare il desiderio. I due diventano amici e Oliver, a quel punto, sembra avere tutto ciò che vuole, tanto da farci pensare di stare vedendo una moderna fiaba, una di quelle con il lieto fine un po’ amaro ma piuttosto convincente. Ma, a metà del film circa, capiamo che qualcosa non torna e che quel ragazzo dagli occhi dolci che avevamo visto fino a quel momento, ha qualcosa di non detto, di celato. La sua timidezza comincia piano piano a venire meno e a trasformarsi in furbizia, passo dopo passo. Il gioco di Saltburn è un gioco piuttosto maligno e ingannevole che ci spinge a non accorgerci di quel che sta avvenendo, non subito almeno. Oliver ci inganna, da subito, ci fa credere qualcosa che capiremo solo più avanti, quando la verità sarà ormai talmente nuda e cruda da fare male.
Sì, perché Saltburn fa anche molto male.
Come si diceva, il film provoca molto emozioni diverse, ma di sicuro non perde occasione di metterci di fronte ad una realtà molto scomoda da guardare, lasciandoci diventare degli inconsapevoli voyeurs a cui è imposto di farsi delle domande scomode. Oliver, con cui diventa sempre più difficile empatizzare, è un ragazzo insicuro ma anche turbato che porta avanti una sorta di ossessione per qualcosa che, inizialmente, non sappiamo bene cosa sia. O meglio, dalle prime scene pensiamo sia innamorato di Felix e lui stesso (in un flash forward) si chiede se fosse vero amore. Ma andando avanti capiamo che la sua ossessione non ha un vero nome, né tantomeno ha un vero soggetto in particolare. Sembra, più che altro, avere una fortissima attrazione nei confronti di un’idea di famiglia, di bellezza e di vita. La famiglia di Felix, infatti, è più che benestante e possiede un imperiale castello dove i ragazzi passano insieme l’estate. Se anche solo per un momento ci fermiamo a pensare che possa essere un film con dei rimandi allo stesso genere come Chiamami col Tuo Nome, per fare un esempio, ci stiamo assolutamente sbagliando. Ma Saltburn fa questo: ci fa pensare di aver capito tutto, e invece non abbiamo capito proprio niente.
Dal punto di vista di chi scrive Saltburn è un perfetto horror, che di horror non ha quasi niente ma che potrebbe fare scuola a moltissimi amanti del genere. Oliver non è solo il protagonista di Saltburn, ne è la vittima e il carnefice, l’eroe e il villain, entrambi i lati di un gioco che porta avanti in solitudine. Oliver è un’entità che si insinua silenziosa dentro un mondo idilliaco, la crepa che rompe la perfezione. È un virus che mette tutto in discussione, che non lascia margini di miglioramento e che deteriora tutto quello che tocca. È esattamente l’elemento horror della sua stessa storia. E non si parla di horror solo a causa di vari decessi che vediamo nel corso del film, né tantomeno per l’atmosfera spesso onirica e destabilizzante che si respira; si parla di horror in quanto Saltburn non fa altro che farci accomodare per poi spaventarci a morte. Come se fosse un’originalissima reinterpretazione del concetto di jumpscare: non saltiamo sulla sedia, né urliamo dal terrore, eppure rimaniamo sbigottiti e senza parole di fronte all’ossessione perversa di Oliver, di fronte alle sue abilità di trasformismo, di fronte alla sua docile crudeltà.
Saltburn è una continua scoperta e una continua messa in discussione di quello in cui crediamo. Oliver, che si insinua in una realtà da lui stesso creata, si pone come un docile ragazzo ingenuo, con dei problemi di socialità e tanta insicurezza. E così si rivelerà, ma con l’aggiunta di alcune sfaccettature non solo inquietanti ma anche tanto sorprendenti. Emerald Fennell con Saltburn fa un lavoro di opposti molto ben congeniato, che permette allo spettatore di non annoiarsi mai e soprattutto di rimanere continuamente scioccato e mai a suo agio. L’atmosfera iniziale, quasi fiabesca, si tramuta in breve tempo in un mood completamente avvezzo al thriller e alla tensione, quel tipo di tensione che sa diventare anche erotica, romantica e passionale e che ci spinge, ancora una volta, a chiederci cosa stiamo realmente vedendo e cosa stiamo realmente provando. Oliver e Felix, apparentemente affini ma mai troppo vicini, sono i protagonisti di una storia che ha, però, un solo burattinaio e una sola vittima. Sta a noi cercare di capire meglio chi è cosa, anche se pensiamo di averlo intuito. Quelli che per Oliver sono i suoi burattini (letteralmente, il finale ce lo spiega molto bene) possono in realtà essere facilmente intercambiabili e diventare in un secondo i carnefici di un sogno troppo vivido che spinge lo stesso Oliver a fare ciò che fa.
Come si diceva, infatti, Oliver è sia vittima che carnefice e spesso oscilla tra una lucida ingenuità e un ossessivo impulso ad ottenere ciò che vuole. Il punto focale, però, rimane sempre lui, è colui cui tutto gira attorno, il ragazzo con un sogno maldestro e insensato che tenta in tutti i modi di portare chiunque alla sua mercè. L’espediente del burattino che Emerald Fennell utilizza è l’immagine perfetta per descrivere quella esatta sensazione di forzatura e sbigottimento che proviamo in ogni istante del film ma a cui non riusciamo, almeno all’inizio, a dare un nome. Oliver, così come fa il film stesso, va oltre le etichette e oltre qualsiasi genere, va dritto al punto, determinato sulle sue azioni, empie o giuste che siano. Come un virus si insinua in un contesto già malato e, attraverso la dolcezza apparente e la costante fermezza, arriva al suo scopo senza intralci, cavandosela nell’unico modo che conosce: con la spietatezza. Saltburn è un racconto di ossessione e di romantico accanimento, delineato in una cornice di ingannevole dolcezza e di messa in gioco delle sicurezze nostre e altrui. Saltburn ci racconta di come le apparenze possono ingannare ma soprattutto di come l’uomo come essere fallibile possa essere al contempo anche un perfetto manipolatore della sua stessa coscienza. L’ultimo lavoro di Emerald Fennell è un thriller psicologico che ha tutto e niente del genere in cui lo si incasella e che ha tutte le carte in regola per farvi mettere in discussione tutto ciò che conoscete.