The Boys
Avete presente cosa abbiamo detto poco fa a proposito di Fringe e The Shield? Beh, si può riproporre anche a proposito di The Boys. Se da un lato abbiamo degli esempi di innovazione dei generi poliziesco e sci-fi, dall’altra è il filone supereroistico ad aver usufruito della sovversiva esperienza di The Boys. Un passaggio necessario, figlio dell’innovativo ciclo di fumetti di Garth Ennis e Darick Robertson e del notevole adattamento di Eric Kripke. Il genere ha sofferto parecchio negli ultimi anni, ed è rimbalzato dentro un carrozzone in cui i grandi nomi e i grandi effetti speciali hanno avuto la meglio sulla qualità di scrittura: The Boys è, in questo senso, l’elemento di rottura necessario per rinverdire i fasti attraverso un approccio sui generis.
Dimenticate gli eroi della Marvel o della DC: i superuomini e le superdonne di The Boys sono profondamente diversi.
La figura del supereroe viene così destrutturata, adattata alle esigenze narrative contemporanee e riproposta attraverso coni d’ombra satirici che raccontano tanto degli uomini – poco super – che siamo noi. Noi, convinti di aver chissà quale superpotere, siamo nudi almeno quanto i famigerati Sette.
The Boys è sporca e cattiva, politicamente scorretta e divertente, brutale e spinta alla spettacolarizzazione per un divertissement che sintonizza pubblico e autori sulle medesime frequenze. Mai fine a sé, senza mai perdere di vista le funzioni primarie dell’intrattenimento.
Non possiamo non menzionare, allora, The Boys tra le serie tv da vedere su Prime Video. Il suo ruolo definitivo nella storia delle serie tv si definirà nel corso delle prossime stagioni e solo alla fine potremo esprimere una valutazione definitiva, ma i suoi meriti sono già evidenti. Meriti che verranno valorizzati anche in futuro da Prime Video attraverso una narrazione d’ampio respiro che si distribuirà su una long run a cui non siamo più abituati, e al parallelo sviluppo di spin-off che struttureranno un franchise dal grandissimo potenziale.
Marvel e DC possono tremare: c’è un nuovo signore in città. E gioca con regole completamente diverse.
Shameless
Senza vergogna. O meglio, senza pudore. Shameless dice un po’ tutto fin dal titolo, ma l’esperienza vale il prezzo del biglietto. Una serie lunghissima come non se ne fanno più: undici stagioni, 134 episodi e un viaggio appassionante all’interno di una famiglia a dir poco dissestata, costretta a sopravvivere in qualche modo nei meandri di Chicago. Un bel po’ comica e un bel po’ drammatica, rappresenta il prototipo ideale di una serialità contemporanea che sfugge sempre più alle rigide catalogazioni di un tempo, mettendo in piedi una narrazione verticale dall’orizzontalità brillante e costante, senza mai incappare in grossi cali.
Una serie necessaria perché risponde alle esigenze di un pubblico che ha voglia di farsi due risate senza rinunciare a un notevole impegno, e che alterna momenti di pura ilarità a botte allo stomaco che fanno un gran male.
Il resto lo fa il cast, e che cast.
William H. Macy interpreta un indimenticabile Frank Gallagher, anima carismatica di Shameless e deus ex machina di alcuni tra i momenti più importanti della serie. Emmy Rossum è Fiona Gallagher, il personaggio che più si avvicina all’idea di protagonista e lascia un bel vuoto dietro di sé quando lascia la serie. Jeremy Allen White è Lip Gallagher, un brillante ventenne che fa di tutto per sfuggire alle dinamiche tossiche della sua famiglia ma finisce per esserne, spesso, uno dei principali artefici. Non dimentichiamo inoltre Cameron Monaghan, esploso grazie a Shameless nei panni di Ian.
Potremmo citarli un po’ tutti, arrivando pressoché sempre alla stessa conclusione: se Shameless ha portato tanta fortuna ai suoi interpreti, i meriti sono innegabili. E l’esperienza appagante: ci vorrà del tempo per arrivare in fondo al percorso, ma ne varrà la pena.
Se state cercando una serie sboccata che utilizza la volgarità come intelligente espediente narrativo, Shameless è la serie che fa per voi.