American Crime Story non offre risposte. Mai. Il suo scopo è quello di riportare nella maniera più fedele possibile gli eventi e, sulla base di questi, lasciare allo spettatore l’onere di farsi una propria idea, anche in relazione al background di riferimento. Così, se il processo a O.J. divenne occasione per una profonda riflessione sul trattamento riservato agli afroamericani, l’omicidio Versace va contestualizzato all’interno della questione omosessuale.
Gianni, infatti, non soltanto era gay. Era una vera e propria icona dell’omosessualità. Anche il suo carnefice, Andrew Cunanan, era un omosessuale e queste due puntate hanno subito messo in chiaro il differente modo in cui i due hanno vissuto la loro natura, pur partendo dallo stesso principio di base: entrambi erano perfettamente a proprio agio con la loro sessualità, vissuta in maniera aperta pur essendo negli anni in cui un detective fatica a considerare Antonio D’Amico il compagno di Versace, identificandolo come un semplice procacciatore di uomini.
Ciò nonostante, il concetto di apertura presenta accezioni ampissime se teniamo conto del fatto che il primo aveva un compagno stabile, Antonio appunto, benchè a entrambi piacesse incontrare (insieme) altri uomini; il secondo, invece, si prostituiva a uomini facoltosi in cambio di soldi, sperimentando le pratiche sessuali più estreme e pericolose.
Non sappiamo cosa abbia percepito la folle mente di Cunanan quando ha visto Versace rifiutare, legittimamente, l’ingresso a un’ammiratrice transgender, ma sappiamo che è scattato qualcosa. E quel momento, in cui forse ha deciso una volta per tutte di orchestrare l’omicidio, è un tassello da tenere in conto nella valutazione complessiva.
Trattandosi di un mosaico che si compone a poco a poco, L’assassinio di Gianni Versace non sente il bisogno di seguire un preciso ordine cronologico, come invece accadeva per Il Caso O.J. Simpson. La sensazione è che Murphy voglia procedere per moduli, in modo da approfondire nel migliore dei modi il background psicologico dei personaggi.
Se questa è l’intenzione, l’episodio non può che dirsi riuscito, soprattutto dal punto di vista della vittima. A differenza del primo episodio, nel quale Gianni era quasi avvolto da un’aura mistica dall’alto del piedistallo sul quale era stato collocato, a questo giro ci viene offerta una postazione privilegiata all’interno della sua sfera più intima, sia dal punto di vista sentimentale che da quello professionale. Che poi, di fatto, coincidono.
Il rapporto con la sorella, che appare sinceramente autentico, non può non passare anche per la sua carriera, per il suo modo di intendere la moda e di trasferire se stesso negli abiti creati. E Donatella non può non accusare il colpo, percependo di star vivendo di luce riflessa, all’ombra del fratello. Anche così si spiega il suo astio per Antonio, il quale rappresenta una figura molto più centrale nella vita di Gianni, come emerge dall’episodio. Antonio, di fatto, rappresenta la chiave per conoscere il Gianni uomo e il Gianni stilista.
È proprio nel suo rapporto col compagno che il genio della moda viene mostrato in tutta la sua normalità. La confessione in spiaggia emerge un uomo che si scopre tremendamente fragile nella sua malattia, ansioso di perdere tutto quello che ha. E la paura è tanto palpabile, quanto amaramente ironica se pensiamo al suo tragico destino. Sensazione, se possibile, addirittura acuita dal fatto che la sua relazione con Antonio sembra essere in procinto di passare a uno step successivo.
Come sappiamo, nel suo caso, il deus ex machina non è il destino, ma un folle squilibrato di nome Andrew Cunanan.
Come dicevamo in precedenza, l’assassinio di Gianni Versace va necessariamente inquadrato anche nel modo di percepire la propria omosessualità. Sia lo stilista che il suo killer, più o meno coscientemente, rappresentano modelli d’emulazione nelle rispettive comunità di riferimento. Sì, anche Cunanan che, nel modo di vivere apertamente il suo essere gay, potrebbe essere definito rusticamente “il Versace dei poveri”.
È un corrispettivo che regge ed è lo stesso psicopatico omicida a mantenerlo in vita nella sua ammirazione ossessiva per Gianni Versace. È probabile che tale ammirazione si sia tramutata in vera e propria invidia; è possibile anche che egli abbia immaginato che lo stilista non facesse abbastanza per migliorare la condizione degli omosessuali; per certo, invece, voleva fare in modo di essere ricordato a tutti i costi.
In tal senso, emblematico il racconto a Ronnie dei suoi trascorsi con Versarce, completamente stravolti rispetto a quanto abbiamo visto nel primo episodio. Il che fa dubitare anche dell’incontro postumo alla messa in scena del Capriccio che, molto probabilmente, è solo frutto dell’ennesima menzogna di Andrew, se non addirittura un sogno. Dopotutto è pur vero che l’unico incontro tra i due di cui siamo certi è quello al party di San Francisco, nel 1990.
Tuttavia sarebbe superficiale attribuire tutta la colpa dell’omicidio a Cunanan.
A proposito della succitata amara ironia, ciò che Murphy riesce a rappresentare adeguatamente in questo franchise è l’incredibile sequela di contingenze che avrebbero potuto evitare il misfatto. E, nel caso specifico, salvare la vita allo stilista. Se la polizia avesse diffuso i volantini, se il magnate adescato in spiaggia avesse avuto il coraggio di denunciarlo, correndo il rischio di fare coming out. E chissà ancora quante altre fatalità ci aspettano nel corso delle restanti sette puntate. Perchè, come accaduto quattro anni prima con O.J. Simpson, i deliri di un pazzo possono trovare piena affermazione soltanto nel degrado della società e nella fallacia delle istituzioni.