Gli dei muoiono quando vengono dimenticati
American Gods è la storia di questi dei, emigrati in terra straniera e abbandonati dai loro fedeli in nome di nuove divinità tecnologiche, che cercano di non morire. Da questa premessa si dipana la serie creata da Bryan Fuller e Michael Green, un prodotto sontuoso e profondamente edonista che, però, continua ad avere una storia molto travagliata.
Tutto inizia con Neil Gaiman e, ancora una volta, con la complicata trasposizione di una sua opera letteraria. Gaiman è celebre per la capacità di creare opere dai numerosissimi livelli di lettura e strati su strati di elementi onirici, simbolici, metaforici. Proprio per questo motivo, trasportare i suoi mondi su schermo è impresa difficile e, soprattutto, costosa. American Gods questo lo sa bene, perché leggenda narra che molti dei problemi intercorsi dietro le quinte siano stati dovuti a problemi di budget.
American Goods Vs Good Omens: l’arte della sintesi
Abbiamo già spiegato in passato i motivi per i quali American Gods non abbia funzionato rispetto alla più fortunata “sorella” Good Omens, adattamento di un’altra novella dello stesso Gaiman. La ragione principale in realtà è facile da intuire se si guarda alla totalità della seconda stagione di American Gods, quella che più ha palesato un deciso cambio di tendenza rispetto all’ottima partenza: la diluizione delle tematiche principali. Entrambe le serie hanno un importante sottotesto legato alla sfera della religione, tematica che diviene ancora più impattante quando affrontata con stile graffiante e una trama condensata. Good Omens è appunto l’esempio lampante di questo: una sceneggiatura brillante e concentrata, nessun elemento inserito a caso o lasciato a se stesso, humor sferzante. Quando una storia è così funzionale da riuscire a raccontare quello che deve, compresi i sottotesti, senza “sprechi” di scene o dialoghi, allora ci troviamo davanti a un ottimo lavoro.
Purtroppo questo è uno degli elementi che è cominciato a mancare ad American Gods per fare il salto di qualità. La seconda stagione ha cominciato ad avvilupparsi su se stessa, attorcigliandosi come un gomitolo di lana e, infatti, trovare il bandolo è stato pressoché impossibile. Le scene inserite a caso si sono moltiplicate e lo spreco di dialoghi per raggiungere lo scopo hanno fatto sì che anche le brillanti tematiche, tanto forti nella prima stagione, andassero a sfumare.
Qual è lo scopo di American Gods?
Quello che abbiamo accennato riguardo la funzionalità della sceneggiatura è legato a doppio filo con lo scopo della serie stessa perché, guardando Wednesday e Shadow girare per gli Stati Uniti, la domanda che è sorta a tutti è stata una sola: dove stanno andando a parare?
Infatti, nonostante un sottobosco di tematiche interessanti, la storia stessa aveva una meta piuttosto chiara, anzi due: da una parte la guerra tra i vecchi dei, rappresentati da Wednesday, e i nuovi dei di Mr. World; dall’altro, la storia parallela del misterioso destino di Laura e Shadow Moon. La prima stagione ha ovviamente gettato la base per entrambe le trame, fino a raggiungere un culmine strepitoso che non solo è stato indebolito all’inizio della seconda stagione, ma addirittura cancellato. La serie ha quindi cominciato a mancare di uno scopo vero, al di là del godere dei rapporti interpersonali tra Wednesday e Shadow o Laura e Mad Sweeney. A proposito di questi ultimi, poi, la sensazione generale era che non avessero più alcuna funzionalità con la trama principale se non quello di fungere da sipario semi-comico.
American Gods Vs. Breaking Bad e altri: il dramma dei progetti in itinere
Un grosso problema di cui si dovrebbe discutere di più è quello legato ai progetti che vengono iniziati tenendo un occhio alla audience e un altro alla produzione. American Gods è il caso che, più di altri, ha dimostrato quanto sono complessi i meccanismi che si celano dietro a qualunque serie tv. Quello che noi vediamo è frutto di un delicato rapporto tra creatore/produttore/ascolti/piattaforma, una formula magica non fissa che spesso affossa ottimi prodotti e porta avanti progetti discutibili. Ad American Gods è mancata una costanza che permettesse a chi di dovere di lavorare con un progetto definito dall’inizio alla fine.
Nel titolo abbiamo nominato Breaking Bad non a caso: oltre a essere sicuramente un’ottima serie, è stata favorita da un progetto già sviluppato lungo tutte le sue stagioni e con un finale predefinito. Questo ovviamente ha permesso una coerenza di contenuti e una certa consistenza di lavoro che ha aggiunto qualche punto in più a tutto il prodotto. American Gods, invece, è stata svantaggiata da un pessimo rapporto tra i due showrunner e la casa produttrice, non staremo qui a puntare il dito su chi avesse torto o ragione, e poi da una serie di conseguenze negative rimbalzate su tutti i settori: abbandono e licenziamento di alcuni attori, abbandono dei due showrunner e ovvio cambiamento in itinere della direzione creativa della serie stessa.
Riassumendo, la narrazione ha cominciato a girare completamente a vuoto e, complici i numerosi problemi di produzione e budget dietro le quinte, la serie ha cominciato anche a perdere i suoi tratti distintivi: brillantezza nei dialoghi e frenetico estetismo nella forma.
American Gods rappresenta una vera e propria occasione mancata che dimostra come non basta solo un ottimo materiale iniziale e nomi importanti per creare una grandissima serie tv. Servono una visione di insieme che rimanga coerente a se stessa, un progetto funzionale ed efficiente, uno scopo dichiarato e preciso, nonché una definizione precisa del budget. Ad American Gods è mancato un po’ tutto e, come un orologio a cui si sono rotti i meccanismi, non ha funzionato.
Adesso si è deciso di puntare a un nuovo showrunner, Charles Eglee, e alla presenza nientemeno che del creatore originale Neil Gaiman (che probabilmente doveva essere incluso nel progetto fin dall’inizio, Good Omens insegna). Già nei suoi primi episodi la terza stagione si sta dimostrando più incisiva e meno tendente a girare a vuoto. Vedremo se le modifiche apportate riusciranno a salvare una serie che dalle sue premesse si presentava come un capolavoro e, invece, si è persa per strada. Sulle parole di Odino stesso a Shadow:
Hai fede?
No rispondiamo: sì, ce l’abbiamo. Ancora per un po’.