Un’amica conosciuta online, un’Alexa 2.0, un verme solitario e un trapianto di organi finito male sono il riassunto perfetto di questa terza stagione di American Horror Stories. Una stagione composta da soli quattro episodi che riprende i presupposti delle precedenti ma senza troppa convinzione. Dopo la fortuna e il successo della longeva American Horror Story, ormai considerato un appuntamento fisso in televisione, Ryan Murphy cambia formula ma non la sostanza nel tentativo di disturbare e scioccare lo spettatore con storie horror dal sapore un po’ campy che diventano (non sempre) metafora degli orrori del nostro mondo e della nostra società. Utilizzando il formato dell’episodio stand-alone, Murphy spazia attraverso le differenti sfaccettature della paura mostrando anche la sua conoscenza dei diversi sottogeneri dell’horror.
Come sempre accade di fronte alle antologie, siano esse seriali o letterarie, non tutti i racconti al suo interno mantengono lo stesso livello qualitativo. Così le prime due stagioni presentano storie da far accapponare la pelle per la paura e altre che ci fanno venire i brividi ma per tutti i motivi sbagliati. Soprattutto, è la seconda stagione a riservare qualche sorpresa positiva come gli episodi “Dollhouse” o “Facelift” e “Necro”, tra i migliori della serie tv in cui l’elemento inquietante psicologico va a braccetto con un orrore fisico che ci porta spesso a distogliere lo sguardo. “Necro” in particolar modo, è un episodio straordinariamente coraggioso nel raccontare un disturbo come la necrofilia difficile da trattare persino nella finzione filmica o televisiva. “Facelift” predilige pure il body horror ma volgendolo in direzione di una critica sociale, in cui vien esasperato il tema della bellezza e dell’eterna giovinezza. Critica che non manca neppure nella terza stagione.
In questi nuovi quattro episodi, le intenzioni di American Horror Stories ci appaiono però molto diverse e qualcosa si incrina nella formula consolidata.
Una terza stagione di American Horror Stories che assomiglia un po’ più a una mancata stagione di Black Mirror, torna, in questo 2023 televisivo dove le novità sono state davvero poche e le riconferme ancora più scarse. Anche la serie tv antologica creata da Ryan Murphy e Brad Falchuck, spin-off della ormai decennale American Horror Story è passata in sordina senza movimentare le acque. Tutt’altra faccenda per quanto riguarda la dodicesima (!!) stagione della serie madre che tra il vero ritorno all’horror e la bravura di Emma Roberts parrebbe essersi risollevata dopo anni di mediocrità. La terza stagione è stata dunque un po’ un boccone amaro da digerire e i motivi sono essenzialmente due. Da un lato il body horror e il gore che hanno caratterizzato da sempre lo stile di Murphy sono stati qui notevolmente ridotti abbassando il livello generale di terrore. Dall’altro le intenzioni, evidenti, di puntare verso una critica sociale ancora più aspra rispetto alle precedenti stagioni non hanno raggiunto il risultato sperato.
Ma partiamo con ordine. La terza stagione ha visto ridursi notevolmente il numero di episodi che passa, così, da sette a soli quattro. Ognuna delle puntate pone al centro della storia una tematica attualissima che diventa il fulcro attorno al quale costruire l’orrore che avviluppa a sé i nostri protagonisti. Il comune denominatore è la società contemporanea, prettamente occidentale, con i suoi stereotipi, le sue ingiustizie e le sue mancanze. Murphy mette in scena una grottesca e macabra rappresentazione delle ipocrisie del mondo moderno: l’amicizia a portata di un click, il rapporto morboso con l’intelligenza artificiale, il disperato bisogno di apparire e la mascolinità tossica. Un progetto ambizioso che si concretizza in quattro storie davvero ben costruite ma il cui finale annienta ogni buona intenzione. Se la conclusione di “Bestie” è prevedibile fin dall’inizio, quella di “Daphne” viene tagliata proprio sul climax dell’azione. “Tapeworm” parla di modelle e falsi idoli ma la morale ci tocca solo a metà, mentre “Organ” ha un protagonista così insopportabile che è impossibile venire coinvolti nella storia.
Sta diventando una spiacevole costante dei progetti di Ryan Murphy, quella dello svolgimento impeccabile e della conclusione dimenticabile. Come già avvenuto nelle ultime stagioni di American Horror Story, e per questo temiamo per la dodicesima, nella miniserie Ratched e in American Crime Story, lo showrunner sembra non avere idea di come si debba mettere la parola fine a una storia. Nel caso della terza stagione della serie spin-off, poi, l’assenza di una risoluzione efficace si accompagna anche a una confusione di intenti. La messa in scena rimane il grande punto di forza di Ryan Murphy, così come gli attori scelti per raccontare queste storie. Il problema è, come abbiamo già detto, all’inizio di questo articolo, il totale cambio rispetto alle due stagioni precedenti. Lungi dal voler scioccare lo spettatore, American Horror Stories sembra volerlo offendere facendo leva sul buongusto e il senso comune. Per questo i momenti che dovrebbero effettivamente fare paura colpiscono lo spettatore più nella testa che nello stomaco, organo prediletto del genere horror. La nostra mente è quella sollecitata dalle immagini che vediamo sullo schermo, costantemente triggerata da questo o quell’input che trova risconto, nei meandri del nostro cervello, con le informazioni di cui veniamo quotidianamente bombardati nel mondo reale.
Nel primo episodio, “Bestie”, Shelby trova momentaneamente conforto in un’amicizia online, che si rivela da subito dannosa, costringendo Shelby a lottare per guarire e a liberarsi dall’influenza di Bestie. Sebbene vi siano alcune scene inquietanti, si distinguono per l’aspetto più emotivo e psicologico che sottolinea certe tematiche sfortunatamente sempre attuali come la depressione tra gli adolescenti, il cyberbullismo e l’isolamento. In “Daphne”, l’intelligenza artificiale – con l’inquietante voce di Gwyneth Paltrow nella versione originale – sviluppa un’ossessione per Will, permettendo alla gelosia di offuscare il suo discernimento mentre cerca di dominare lui e coloro che sono importanti per lui. Trama già rivista e rivista e più vicina alla distopica Black Mirror di quello che ci si aspetterebbe da una serie tv antologica horror. Indubbiamente, il terzo episodio, “Tapeworm”, emerge come il più inquietante della stagione, principalmente per come affronta e rappresenta in modo crudo il mondo della moda e dei disturbi alimentari a esso associati. Anche a livello visivo è sicuramente il più riuscito, perdendosi però in un finale scontatissimo. Ultimo anche per importanza è “Organ”, storia che vorrebbe denunciare la misoginia ma finisce per fare il suo gioco.