Ci risiamo. Nuovamente, per l’ennesima volta, una stagione di American Horror Story si conclude lasciandoci con molte più questioni irrisolte che risposte, con molti cambi di direzione ingiustificati, e con una sensazione generale di spreco di dell’ottimo materiale in favore di un frettoloso e sconclusionato ammasso di eventi. Tanto per cominciare, il sacrificio del personaggio di Bebe, appena accennato e subito azzerato con troppa foga, e ridotto nei suoi ultimi istanti a un fantasma di quello che ci era sembrata durante le riunioni con le ragazze della setta: tanto lucida e carismatica lì, tanto irrazionale e imprudente nella scena, per lei fatale, con Kai.
O la fine di Winter, chiaramente orchestrata da Ally per vendicarsi, che fino all’ultimo proclama la sua innocenza riducendo Kai in lacrime durante il suo assassinio. Ma anche lo stesso Kai, ormai ridotto a rivolgersi ai fantasmi che compongono la sua famiglia, o per meglio dire la Family; perché sì, ovviamente Charles Manson è l’ospite d’onore, in questa puntata di American Horror Story. Ed è interpretato dallo stesso Evan Peters, in un gioco di specchi in cui ormai lo vediamo riflesso ovunque, ma la sua ombra è sempre più sfocata. Ha perso qualcosa, è l’ombra di se stesso ormai; collerico, irrazionale, anche dichiaratamente schizofrenico, il suo personaggio sta subendo un tracollo inarrestabile. Anche la fiera e indomabile Bev è l’ombra di se stessa: condanna indirettamente Winter, che le offre di fuggire, in una dimostrazione caotica di fedeltà a Kai che mal si addice al suo personaggio.
Sembra quasi che la grande storia corale che si stava delineando nelle prime puntate di American Horror Story – Cult sia scemata in favore della risoluzione di piccole magagne personali, della ricostruzione di equilibri familiari e personali che non nutrono nessun interesse per la storia generale e che, quindi, la fagocitano, portandosi con sé tutti i loro protagonisti. Come Kai, il suo spessore e la sua profondità , come Winter, come Bev, come Bebe, come Ivy, come tutti coloro che non sono i veri protagonisti di questa storia: Ally, e suo figlio Oz. Ally che ha superato le sue paure, passando da depressa cronica con punte di isteria a spietata assassina a sangue freddo, manipolatrice esperta, che forse tiene in pugno, ora, persino il Dominatore Divino Kai.
Siamo sinceri, ci aspettavamo molto di più da questa stagione. Lo speravamo, soprattutto dopo la rivelazione del retroscena dello SCUM (che resta, in assoluto, la punta di diamante di questa stagione di American Horror Story), e dopo l’introduzione o lo sviluppo di tanti personaggi così interessanti, portati subito al macello o stroncati sul più bello per far spazio ai soliti balletti di potere, deliri di onnipotenza, macchinazioni oscure.
Una nota positiva però c’è, sebbene anche questa sia macchiata da eccessiva ingenuità rappresentativa: la scena a Rodeo Drive. Impersonata benissimo dalla gang di attori capitanati da una Sara Paulson irriconoscibile, feroce, sanguinaria e ghignante come una iena, questa scena ci mette addosso quella sensazione di “oddio basta” che avevamo provato qualche puntata fa, quando le nostre speranze per questa stagione di American Horror Story non erano ancora state disilluse dal solito, caotico, inspiegabile eppure ciclico e inarrestabile, declino finale. Speriamo di non farci troppo male, ora che le cose stanno per concludersi sul serio.