Sono da anni una delle prime denigratrici di American Horror Story per mille, ottimi, motivi. Eppure ho amato, anzi, no ho adorato Cult.
Doverosa premessa: ho visto tutte le stagioni di American Horror Story, conosco bene la mano e i mille difetti di Ryan Murphy, sono appassionata alle trame, ai personaggi, ma trovo sempre tutto troppo complicato, involuto e schiavo dei colpi di scena senza senso.
Ad American Horror Story va il merito di avere un cast quasi sempre in stato di grazia, che, moltissime volte, salva l’intera stagione e che, per qualche misterioso motivo, continua a ritornare ad ogni stagione. Cult è un piccolo gioiellino che si discosta completamente dalle stagioni più o meno fallimentari successive ad Asylum.
Cosa ho amato in Anerican Horror Story Cult?
Evan Peters e Sarah Paulson: due attori geniali, che interpretano il ruolo della vita e riescono a diventare la cartina tornasole l’una dell’altro, da vittima a carnefice e da carnefice a vittima. Che Sarah Paulson fosse brava non è certo una scoperta sconvolgente, ma tanto di cappello ad Evan Peters che, dopo Tate Langdon e Kit Walker si era un po’ perso nei ruoli bislacchi che gli aveva affidato Murphy. Evan è riuscito a caratterizzare Kai come uno psicopatico per il quale riuscivi quasi a provare compassione, anche nei suoi diecimila difetti, anche se era uno psicopatico, anche se era il peggior esempio di essere umano. È riuscito a dipingerlo come un dimenticato, un disturbato, una creatura imperfetta desiderosa di essere accettata, di essere, in fondo, amata.
Lo sua rovina, il suo delirio di onnipotenza, lo rendono odioso, ma, per qualche motivo, si prova anche pena per questa sottospecie di uomo così piena d’odio, così priva di amore, così incapace di esprimersi, pur essendo così eloquente.
Via via, la Serie dà inoltre voce all’attualità, perché qui si parla di culto e Cult afferma a chiare lettere che siamo un popolo lobotomizzato. Che si parli di pancine che non fanno specchiare i figli prima del battesimo, di un antisemita che sa a malapena coniugare un verbo nella propria lingua madre, dei politologi da tastiera o di un bambino che si fa esplodere per motivi religiosi… siamo tutti schiavi di una religione, di un credo politico, di una moda imposti, artefatti, che ci fanno sentire vivi solo perché ne facciamo parte.
È terribile, è spaventoso ed è, purtroppo, reale.
Murphy gioca, inoltre, sulle oggettive paure delle psiche umana: la claustrofobia, l’irrazionale paura dei clown, i disturbi mentali e l’inadeguatezza dei metodi di cura, il terrore incontrollato e, paradossalmente, il controllo di una mente malata su soggetti molto facilmente condizionabili.
Non a caso, tutto il dramma inizia dall’elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America di Donald Trump, l’uomo che, ad oggi, la storia considererà come il soggetto meno idoneo a governare uno Stato tra i più potenti al mondo e quello che rischia di portarci sulla soglia della terza guerra mondiale ogni volta che sorge il sole. Ricordiamo che non tutti, in America, hanno reagito bene all’elezione di Donald, quindi, Cult dà voce a un elettorato insoddisfatto e, giustamente, frustrato (sul giustamente, ne possiamo parlare in privato).
Altro punto a favore, le morti non necessarie: in Cult le morti non si sprecano e sono quasi sempre senza motivo reale. Basti pensare a Winter, uccisa dal suo stesso fratello in una delle scene più a impatto della Serie, o a Meadow, che si immola come un agnello sacrificale su un altare che la vuole solo mera vittima, presa in giro, vita sprecata nel nulla di un culto in cui lei era solo una pedina.
Come tante vittime sacrificali che si sono bruciate nel nulla di un falso credo.
Cult, pur tra le numerose baracconate in puro stile Murphy, è una Serie che ha il chiaro intento di far riflettere: le citazioni che invitano a soffermarsi sull’attuale, pericolosissimo, status quo sono numerose, da Charles Manson a Jim Jones, passando per le Scum, fino ai brutali assassini seriali mascherati da clown.
Culti malati, devianti, distorti, volti a irretire persone deboli, problematiche, desiderose di appartenere a qualcosa, di essere parte di un tutto, di qualcosa di cui la gente parla.
Cult, volenti o nolenti, invita a pensare, a distanziarsi, a cercare di togliersi dalla massa ed è per questo che Ally riesce a liberarsi, perché, morto Kai, pur nel suo discutibile passato di errori, tornerà a essere libera.