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In medias res – American Horror Story: Cult

American Horror Story
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Questa settima stagione di American Horror Story ha tutte le carte in regola e le premesse per essere la più spaventosa di tutte, senza dover ripiegare su elementi sovrannaturali, perché la realtà è la cosa che fa più paura. E lo proviamo subito, quel brivido, non appena la puntata Election Night ci catapulta

dentro l’incubo che ognuno di noi ha vissuto solo pochi mesi fa: l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Un momento in cui tutti ricordiamo cosa stavamo facendo e con chi eravamo. Inizia così la puntata, con l’annuncio ufficiale della candidatura del tycoon biondo, la rivalità con Hillary Clinton, le schermaglie a distanza, le provocazioni, le gaffe che diventano colpi di genio, l’asticella del consenso che si alza e si abbassa improvvisamente come una ghigliottina, falciando le ambizioni dell’ex First Lady e di tutti gli americani democratici, progressisti o, semplicemente, sani di mente.

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Anche se non tutti gli americani democratici sono davvero sani di mente: prendiamo il personaggio di Sarah Paulson, ormai musa ufficiale di American Horror Story, che qui interpreta una donna lesbica felicemente sposata con la sua compagna grazie alle politiche sociali di Obama, e madre di un bambino. La poveretta prende decisamente male la vittoria di Trump alle elezioni, manifestando fin da subito crisi di panico, depressione, strane fobie (sangue, clown, spazi angusti, buchi nelle cose), e non da ultimo spaventose allucinazioni in cui le sue fobie si concretizzano in apparizioni di clown con maschere mostruose intenti a fare sesso nel reparto ortofrutta del supermarket, andare sul monopattino, o essere semplicemente terrificanti in quanto clown.

Le sue continue crisi d’ansia e il suo rifiuto tipicamente borghese da “mamma informata 2.0” di assumere alcun tipo di medicinale la stanno instradando già dal primo episodio verso la separazione o comunque una crisi coniugale, da risolvere con terapia di coppia dal miglior psichiatra della città. Probabilmente lo stesso che, pur perplesso per la sua fobia dei buchi, accetta di nascondere il terrificante e voyeuristico corallo ornamentale nel suo ufficio, facendosi bastare come spiegazione “mi sta fissando”.

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L’altro polo designato di American Horror Story è Evan Peters, che qui interpreta un seguace di Trump con le rotelle ancora più aggrovigliate della mammina 2.0, con una teoria tutta sua sul ruolo della paura nella società e di come sfruttarla per dare più autorità ai governi (gli suggeriamo di scrivere le sue rivoluzionarie idee in un blog, funziona). Completamente psicopatico, razzista, manipolatore, violento, omofobo: possiede tutte le caratteristiche del seguace medio di Trump, anche se da lì il passo per diventare una macchietta è breve. Ma abbiamo fiducia in Evan Peters, e sappiamo che non ci deluderà; sappiamo anche che le sue interpretazioni migliori sono nei panni del pazzo omicida, che ben contrastano con la sua faccia da bravo ragazzo.

La puntata, e sicuramente l’intera Serie, ha un impianto tutt’altro che originale: oltre a citare se stessa in succulenti Easter Egg (quanto vi è piaciuto quello su Twisty?), si rifà apertamente a prodotti cinematografici e fenomeni pop come La Notte del Giudizio, Black Mirror, il dilagante strapotere di Internet, l’influenza che ormai ogni notizia è in grado di avere sulle nostre vite. Il fatto che questa nuova stagione di American Horror Story attinga a piene mani da prodotti esistenti e dall’attualità non è però un male: come si diceva in apertura, è proprio questa la chiave che potrebbe far scaturire una storia veramente terrificante e potenzialmente gravida di riflessioni, di autocritiche, di affreschi narrativi per una volta un po’ meno di horror puro e più di critica sociale (cosa che, in realtà, l’horror, se fatto bene, è già).

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Lo vediamo molto bene nella scena iniziale, dopo la carrellata di immagini e riprese vere di Donald e Hillary, nel momento in cui assistiamo alle reazioni degli elettori davanti alla televisione. Si vedono subito le differenze tra i protagonisti: Ivy e Allie, con il loro figlio e i vicini asiatici, che si disperano ed esprimono le loro preoccupazioni per il futuro, tutti insieme sul divano nella casa borghese elegante e moderna delle due mamme; Kai da solo, nel buio del suo salotto economico, mentre mangia patatine ed esulta in modo violento.

Ci sono due Americhe, sembra dirci questa puntata, e ognuna ha la sua parte di torto e di ragione, e ognuna esprime se stessa nel modo a lei più congeniale per cultura, origine e status sociale: le donne borghesi, eleganti e colte con le crisi di panico e le allucinazioni, i ragazzotti della working class, rozzi e ignoranti, con la violenza. Ma non bisogna sottovalutare nessuna delle due parti, perché ognuna ha i suoi assi nella manica.

 Nel caso di Kai è la sua sociopatica (ma democratica) sorella Winter, che condivide con lui, oltre ai disturbi mentali, la passione per le tinte per capelli a buon mercato. Kai userà (indirettamente? È presto per dirlo) Winter come chiave per scardinare l’apparente normalità della famiglia arcobaleno, e non c’è niente di più terrificante, per la tipica famiglia americana, di una babysitter che fa vedere ad un bambino video di torture sul Dark Web.

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Come previsto, il finale di puntata ci regala il prevedibile bagno di sangue, facendo sorgere il dubbio che le allucinazioni di Allie non fossero poi così irreali; e la sigla si conferma una delle cose più inquietanti del panorama horror moderno, essendo stata in alcuni casi persino più spaventosa di American Horror Story stessa. Non ci resta che incrociare le dita e sperare che l’incantesimo delle prime puntate, con cui Ryan Murphy ci aveva illuso da quattro stagioni a questa parte, si prolunghi il più a lungo possibile, e che possiamo svegliarci e ritrovarci in un mondo in cui l’elezione di Trump e le purghe anti-immigrati sono solo fantascienza.

Ma questo è American Horror Story, baby: la realtà supera sempre l’immaginazione.

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