Kai Anderson è in assoluto la cosa migliore che Ryan Murphy potesse concepire, in questa settima stagione di American Horror Story. Il suo personaggio ci viene presentato come il tipico elettore di Trump: ignorante, rozzo, volgare, misogino, arretrato, povero dentro e fuori; insomma, un perdente totale. Lo conosciamo mentre si lascia andare a smodate manifestazioni di entusiasmo per l’elezione del suo idolo, e lo etichettiamo come un povero idiota, verso il quale provare solo antipatia, pena, schifo.
Iniziamo a vederlo sotto una luce diversa quando intravediamo in lui la stoffa del leader, dell’incantatore di folle, di qualcosa che è molto di più del semplice, rassicurante, imbonitore: Kai è un vero e proprio pifferaio magico, capace di farsi raccontare i più intimi segreti delle persone e di usarli per i suoi scopi, capace di incutere paura nel cuore delle persone, quel tanto che basta per averle in pugno. Kai Anderson è tutt’altro che un povero ignorante circuito dalle parole semplici ma viscerali di Trump: è un lucido manipolatore, con un’intelligenza e un’istruzione sopra la media, un ego smisurato e un’ambizione che non conosce freni perché va a braccetto con la consapevolezza di valere tanto.
Kai Anderson sfugge alle rassicuranti etichette di “credulone”, “ignorante”,”stupido”: ha un QI altissimo (cosa a cui gli americani tengono molto), una cultura accademica, una personalità forte e dominante, un’ambizione fuori dagli schemi. Vuole dominare il mondo, vuole far sentire la sua voce. Conosce molto bene l’animo umano, e sfrutta le debolezze altrui per confermare la sua leadership.
Ama la sorella, il fratello, ama i suoi seguaci: ma ama soprattutto se stesso, e quel sogno che ha fabbricato e dipinto a strisce bianche e rosse, quel sogno americano di benessere, ricchezza, splendore che, declinato alla Kai Anderson, diventa un incubo velenoso. Per questo ogni cosa che tocca si trasforma prima in oro, poi in polvere: il sogno sognato da Kai è troppo grande, troppo folle per uno come lui, e fagocita ogni aspetto e ogni persona della sua vita, risparmiando solo chi ha ancora qualcosa per cui vivere, e non solo un folle sogno: Beverly, Ally. Loro sopravvivono a Kai Anderson perché non lasciano che la follia prenda il sopravvento su tutto, e a quel barlume di sanità mentale e di resilienza si aggrappano con tutte le forze, finché non se ne tirano fuori.
Kai alla fine cade, come erano caduti tutti i grandi leader del male che lui, nelle sue fantasie, vede con il suo volto: stroncato dalla sua stessa fame di notorietà, di potere, dalle visioni che prendono il sopravvento sull’intelletto, e in parte smontato pezzo per pezzo dalla deriva che prende, a un certo punto, questa stagione di American Horror Story.
Un vero peccato che un personaggio così complesso come quello interpretato magnificamente da un Evan Peters in stato di grazia venga demolito usando la leva dell’insanità mentale, la comoda e rassicurante scusa che la società usa per togliere potere ai personaggi scomodi. Perché Kai Anderson, alla fine, rappresenta quella parte nascosta di noi, quelle opinioni non dette a voce alta, quella voglia di rivalsa, quella sete di potere del maschio bianco medio, che la società perbene e noi stessi, quel 90% che vuole la pace nel mondo e uno stipendio fisso, vuole mettere a tacere.
E che invece vengono urlate, sparate, dipinte col sangue, in questa settima stagione di American Horror Story. Le domande che ci lascia un personaggio, e un’interpretazione del genere sono tante, ma una ci preme sottolineare: sopravviveremmo, a una seduta di gioco della verità con Kai? Riusciremmo a nascondergli i nostri pensieri scomodi, le nostre paure profonde, riusciremmo a non fargliele usare contro di noi? Noi pensiamo di no, e quel brivido che ci dà la paura di venire scoperti, di venire usati, e insieme quella voglia di essere completamente noi stessi con qualcuno, quel modo in cui Kai riusciva a far sentire le persone, è il vero lascito di questo guru decaduto.
Perché in un mondo che sembra averci assuefatto al mantra “la banalità del male”, Kai Anderson è qui a ricordarci che il male può ancora essere complesso, articolato, indecifrabile.