Questa settima stagione di American Horror Story poteva segnare la svolta per una Serie Tv rimasta ferma per troppi anni ad inseguire la sua stessa gloria, bloccata in meccanismi sempre uguali che, se avevano segnato il successo delle prime due stagioni, alla lunga ne avevano decretato il declino. Molte cose sembravano cambiate, e migliorate, soprattutto se paragonate alla deludente sesta stagione (ve ne abbiamo parlato, con molta ironia, qui). Molte cose erano rimaste assolutamente invariate, e da questo deriva la nostra generale insoddisfazione per un finale di stagione che poteva essere molto più soddisfacente di così, e che ci lascia con una persistente sensazione di incompletezza. Ma analizziamo per gradi questo finale di stagione di American Horror Story.
Innanzitutto, l’inizio. Non ce lo saremmo mai aspettato, di vedere Kai in prigione, condannato per aver organizzato una raccapricciante caccia alle donne incinte d’America, operazione denominata dal Dominatore Divino “Notte delle mille Tate”, in omaggio a Charles Manson, ormai ombra persistente nella mente di Kai. Bisogna ammettere che come scelta per il finale è coraggiosa: mostrare il protagonista e villain incarcerato, a un passo dalla gloria, dopo aver nominato l’episodio Great Again (avvisaglia subito smentita di una sua vittoria e incoronazione alla carica di Senatore), è un passo indietro che ribalta completamente le nostre aspettative per il finale, e ci fa ben sperare.
Peccato che il rovescio della medaglia, in termini di trama, sia pesante: mostrare una soluzione del genere, per il personaggio di Kai, significa prima di tutto doverla motivare e spiegare tramite una serie di scene che occupano gran parte della puntata, e che forse, diluite nell’episodio precedente, avrebbero dato un po’ di respiro a una trama in cui sono state già dette e mostrate fin troppe cose. In secondo luogo, questo costante svalutazione delle potenzialità di Kai per ridurlo a uno schizofrenico; un personaggio nato come costola di un elettore medio di Trump, evolutosi nella direzione di leader carismatico e manipolatore che sfugge ad ogni tentativo di etichettatura, diviene un folle irrazionale con manie di grandezza.
Una riduzione delle potenzialità di un personaggio (e di un attore) ingiusta e ingiustificata: la deriva autoritaria con sprazzi di follia doveva avvenire in quest’ultimo episodio, per mostrarci come Kai, seppur incarcerato, pensasse ancora di avere presa sulle folle sfruttando il suo carisma e la frustrazione del maschio medio americano. La complessità di Kai andava tenuta inalterata, per preservarne la credibilità scenica e il valore nel panorama dei villain delle Serie Tv.
Ally, come avevamo previsto, si riconferma la vera protagonista di questa stagione di American Horror Story ma, diversamente dalle nostre previsioni, la sua storia personale di rivalsa non monopolizza il finale. Non troppo, perlomeno. Riacquistata la sua indipendenza, suo figlio, una credibilità e ricostruitasi una “verginità” morale da spendere alle elezioni per il Senato, la nostra nevrotica ha ormai imparato dal nemico quello che le basta per far sì che il germe del male, della setta, non muoia mai.
I suoi principi vivono e prosperano, e lo vediamo molto chiaramente nel finale, in cui capiamo come Ally, uscita con le unghie e con i denti dalla setta di derivazione maschilista e totalitaria di Kai, non abbandona le dinamiche esclusive, segrete e fanatiche che caratterizzano le sette e fa suo il verbo di Valerie Solanas. I nostri timori sull’estrema leggerezza con cui era stato trattato l’argomento SCUM dopo la superba settima puntata vengono fugati: la filosofia di Valerie vive, l’estremismo femminista è soltanto la naturale risposta al fascismo machista di Kai, i principi di aderenza totale alla setta permangono, il male non muore mai. E allora cos’è quella sensazione di “incompiuto” che ci prende allo scorrere dei titoli di coda? Perché sentiamo la voglia di andare avanti, di cercare quella sensazione di grandezza, di solennità, che il titolo Great Again ci evocava?
Perché, semplicemente, alcune cose sono state gestite veramente male, dal punto di vista della trama. La sospensione dell’incredulità che Ryan Murphy ci chiede praticamente in ogni stagione di American Horror Story, qui è doppiamente necessaria, perché le incoerenze di trama ci sono.
Come ha fatto Kai, un evaso, a entrare in una struttura in cui si sta tenendo il dibattito fra due candidati al Senato, e perché una volta entrato la sicurezza non interviene? In che modo è evaso Kai, considerato che, dopo la morte di un detenuto all’interno di un carcere, la sicurezza sarà stata al massimo? Come ha fatto una donna scappata da una setta a candidarsi per il Senato, e a vincere? Bev l’avrà fatta franca, dopo aver ucciso Kai a sangue freddo? Possibile che nessuno abbia indagato veramente sulla morte di Ivy?
Insomma, una serie di incoerenze e di aspetti trattati poco e male che fanno storcere la bocca, in questo finale di American Horror Story. Poteva sicuramente andare molto, molto peggio. Potevano avere la meglio le manie di grandezza di Ryan Murphy, ed essere un finale (ancor più) incentrato sulla morale e meno sulla quadratura di un cerchio che, per noi, è arrivato appena a tre quarti. Per essere veramente perfetto, in realtà, sarebbe bastato veramente poco. Sarebbe bastato togliere più cose di quelle che sono state aggiunte, in termini di azione, per lasciare spazio a un’indagine più approfondita dei personaggi e delle motivazioni dietro alle loro scelte, soluzione che ha reso sublime il finale di Asylum.
Tornare agli antichi fasti, lo sappiamo, è impossibile. Ma andare avanti con la consapevolezza di non avere più lo smalto e il mordente di un tempo è un’operazione che può avere senso solo considerato il fatto che ormai la Serie è stata rinnovata per altre due stagioni.
Il nostro voto, per questo finale di stagione di American Horror Story – Cult, è 6.5.
E in questa sufficienza risicata c’è un po’ di amarezza, un po’ di sollievo, tanto rimpianto e tanta rabbia, per quella che poteva essere la stagione della svolta e si è rivelata essere la stagione che, dopo un inizio in quinta, ha improvvisamente tirato il freno a mano, arrestandosi bruscamente sulla soglia della sufficienza.