Diciamolo chiaramente: quando si parla di cinema, Star Wars, è per antonomasia l’I.P. più famosa, amata e rimpianta di tutte. Prima di Harry Potter, Signore degli Anelli, Fast & Furious e Mission Impossible erano in poche quelle che potevano essere menzionate a livello mondiale. Giusto la serie di Bond, ovviamente, e forse Indiana Jones, ma da quando nel 1977 George Lucas ha iniziato a portare milioni di spettatori in una “Galassia lontana lontana” non c’è più stata partita. Cosa pensare quindi di Andor in quest’ottica dopo alcuni mesi dalla sua uscita e dopo la conclusione primaverile della terza stagione di The Mandalorian?
Sono molti anni che l’effetto “nostalgia” permea moltissime produzioni sia sul grande che sul piccolo schermo. Verrebbe da pensare, quasi maliziosamente, che tutto sia iniziato con l’uscita nel 2016 di Stranger Things. Serie amatissima che fa dell’effetto nostalgia anni ’80 una propria cifra narrativa. Probabilmente però il problema è più strutturale e la serie dei Duffer Brothers ne è l’apogeo più che l’origine. Sarebbe quindi lecito desumere che un franchise come Star Wars dovrebbe avere vita facile in questo nostro attuale panorama e invece sembra vagare senza meta come un droide a piedi nel deserto. Andor ad esempio è stato il titolo meno atteso di sempre dal pubblico, anche dallo zoccolo duro della fan base più accanita.
Come dargli torto? Il pubblico ha accolto tiepidamente l’ultimo film della serie, Star Wars: The Rise of Skywalker del 2019 non senza qualche ragione e solo parzialmente l’universo televisivo è stato in grado di riempire il grande vuoto formatosi negli anni nei cuori degli spettatori. Nonostante successi come The Mandalorian, l’andamento della qualità nei prodotti presentati da allora è stato, eufemisticamente, incostante. The book of Boba Fett non ha avuto, e ci mancherebbe altro, molto successo. La serie animata Bad Batch ha veleggiato su una più convinta sufficienza, ma senza eccellere, mentre una serie che avrebbe potuto, ma ancor più dovuto, essere davvero stellare come Obi-Wan Kenobi si è arenata tra pochezza di idee e sterili polemiche sul casting. Star Wars era finita in un pantano peggiore dell’X-Wing di Luke su Dagobah. Almeno fino all’arrivo di Andor.
L’ultima “nuova” storia di Disney+ è una storia sulle origini di un personaggio secondario introdotto in uno spin off che ci aveva illuso, guarda caso nel 2016 (ricordate cosa dicevamo poco sopra? Sarà un caso?), che uno Star Wars nuovo e rinvigorito fosse possibile e che negli anni successivi, come detto, ci ha deluso. Quando Rogue One, appunto lo spin off a cui dobbiamo oggi Andor, si era impantanato nelle riprese, Lucasfilm ha chiamato in soccorso lo sceneggiatore e regista, con nomination all’Oscar, Tony Gilroy per salvarlo. Stando a quanto si è potuto sapere proprio Gilroy è stato colui che ha deciso che il modo più ovvio e soddisfacente per concludere il film fosse (spoiler alert anche se sono passati quasi 8 anni): uccidere tutti. Con Gilroy assunto come showrunner di Andor, quel tipo di approccio cupo ma audace alla narrazione è stato la chiave di volta del tono dell’intera serie: nessuno è al sicuro e nessun sacrificio è troppo grande.
Dopo un inizio volutamente lento ma molto guardabile che si è preso il tempo di affrescare lo sfondo su cui si dipanerà la storia, Gilroy ha alzato la posta in gioco. Settimana dopo settimana, con una chiarezza di visione rara per Star Wars, abbiamo iniziato a vedere qualcosa che mai c’era stato dato prima da Lucas o Disney. Qualcosa che rende Andor, non solo la migliore serie televisiva di Star Wars, ma anche uno degli spettacoli più avvincenti dei tutto lo scorso anno. In qualche modo Gilroy è riuscito dopo 45 anni di film su una guerra civile intergalattica ad offrirci con Andor una visione inventiva e del tutto nuova per il franchise di come sia la vita sotto un regime autoritario.
Andor ci mostra come una popolazione possa venire assoggettata attraverso lo sfruttamento economico. Come uno stato di sorveglianza strisciante e subdolo unito a una polizia draconiana possa alimentare un gigantesco complesso industriale carcerario. Ma soprattutto vediamo il regime imperiale reinventato come una serie di lotte di potere interne. Un arraffarsi poltrone e scrivanie sul posto di lavoro degno di una serie tv su Wall Street. Anche in questo, forse soprattutto in questo, è encomiabile il lavoro di questa produzione: incontriamo i lavoratori e i collaboratori che formano l’impero, non più come caschi bianchi incapaci di sparare ad un metro e buoni solo per essere uccisi in uno sparatutto in soggettiva, ma donne e uomini sfaccettati nelle loro personalità, angosce e viscerali desideri. Da un’ambiziosa supervisore dell’Ufficio di Sicurezza Imperiale (Denise Gough) a un soldato semplice della Sicurezza (Kyle Soller), il cui fanatismo sul lavoro è radicato nelle piccole tirannie quotidiane che subisce nella sua vita domestica.
Non più vuote comparse sullo sfondo in attesa di essere soffocate da Darth Vader. Questi Imperiali di medio e basso livello sono motivati dall’ambizione, dall’autoconservazione e da profondi risentimenti. La minaccia che rappresentano diventa drammaticamente reale: più complessa, insidiosa e riconoscibilmente umana di qualsiasi raggio laser spaziale che distrugga un pianeta o di un roco Signore dei Sith. Quello che Andor ci mostra è, nella sua più radicata umanità, infinitamente più reale. Proprio per questo riesce a farci empatizzare con i villain: le colazioni passivo-aggressive con il latte blu di Syril Karn (interpretato dal già citato Kyle Soller) con la madre sono degne di alcune delle più importanti serie tv degli ultimi vent’anni.
Anche i ribelli sono altro rispetto a ciò che abbiamo visto in precedenza, più sfaccettati e variegati sia nelle motivazioni che nelle intenzioni. Ci sono personaggi come Luthen e la senatrice Mon Mothma (Genevieve O’Reilly), che mantengono le apparenze di ricchi membri dell’élite della galassia mentre segretamente finanziano, gestiscono o alimentano la resistenza clandestina. “Ho rinunciato a ogni possibilità di pace interiore; ho trasformato la mia mente in uno spazio senza sole” dice Luthen in un monologo mozzafiato che evoca decisamente la scena finale di Rutger Hauer in Blade Runner.
Sostenuta anche da una notevole performance sfumata e a tratti ambigua di Diego Luna, Andor, è una serie di prestigio: piena di intrighi di palazzo (ma con meno incesti rispetto a House of the Dragon) dove lo spazio e la fantascienza sono solo un gradevole sfondo. Il fulcro è l’individuo con i suoi conflitti e le sue luci e ombre. Quanto c’è di Star Wars in tutto questo, anche senza spade laser, Jedi o la Forza. Andor è la serie migliore di Star Wars, perché finalmente, dopo 45 anni, è diventata adulta. Senza snaturarsi ma senza vivere nei sogni adolescenziali fuori tempo massimo e che finalmente affronta i temi fondanti della sua narrazione senza impantanarsi in essi, ma con lucidità e decisione. Forse Star Wars avrebbe dovuto da molto tempo essere così. Sicuramente da oggi in poi dovrebbe essere sempre così. In fondo nessuno dei personaggi di George Lucas era un’icona quando è comparso la prima volta sullo schermo, forse anche un Cassian Andor qualunque ce la potrà fare. In fondo dipende da noi: may the Force be with you.