6) Samurai Champloo

Merito, anzi responsabilità, di Nujabes. Il nome vero era Seba Jun. Producer giapponese, cultore dell’hip-hop strumentale, innamorato del jazz e delle armonie malinconiche. La sua musica è l’anima di Samurai Champloo (disponibile sul catalogo Prime Video qui). È la storia di tre esseri umani persi. Che non cercano niente, e proprio per questo trovano tutto. Un ronin che non riesce più a credere nell’onore, un reietto anarchico che combatte come balla, una ragazza che rincorre un padre che forse non esiste. In mezzo, un Giappone scomposto, pieno di anacronismi, colori sporchi, episodi senza morale. Tutto è frammentato, eppure incredibilmente coerente, grazie alla musica.
E la colonna sonora è l’unica cosa che li rende migliori.
I battiti lenti e spezzati di Nujabes non sono lì per fare atmosfera. Sono lì per rallentare il tempo. Per costringerci a restare. In silenzio, nell’attimo. Quando Fuu guarda fuori da una finestra o Mugen fuma con lo sguardo stanco di chi non ha mai dormito davvero. Quando Jin si volta a guardare qualcosa che non dirà mai. In quei momenti, la musica ti fa sentire che stai vivendo con loro. Senza bisogno di capire tutto. Il jazz-hop strumentale qui diventa un rifugio fragile. È musica imperfetta, come le vite che racconta.
La cosa più potente però, secondo me, è che Samurai Champloo non cerca mai di spiegare troppo. E quando parte “Shiki no Uta” sui titoli di coda — quella voce sussurrata, quella base lenta che sembra un sogno che non vuole finire — ti rendi conto che tutta la serie è stata una lunga canzone su ciò che abbiamo perso prima ancora di capirlo.
7) Attack on Titan

Io me lo ricordo il primo momento in cui ho sentito “Vogel im Käfig”, in quel momento della storia in cui capisci che niente sarà più come prima. È come se il mondo si stesse spaccando davanti ai nostri occhi, lasciandoci a guardare attoniti. Ecco, in quel momento parte questa traccia lenta, tra l’arpeggio malinconico e il coro tedesco che sembra cantare da una chiesa in rovina. Gli archi si stringono come un nodo alla gola, il campanile svetta in alto, lontanissimo da noi.
Hiroyuki Sawano, il compositore, ha fatto qualcosa che non si può spiegare in termini tecnici e basta.
Ha costruito un lessico musicale tutto suo: corali apocalittici, sintetizzatori esplosivi, orchestrazioni. Il suo stile è quello di chi ha visto la fine del mondo, ma si è rifiutato di restare in silenzio. C’è qualcosa di profondamente viscerale nella sua musica. Sono note che accompagnano chi combatte sapendo che perderà. E lo fa comunque.
Ma quello che ci colpisce di più, a ogni rewatch, è come Attack on Titan riesca ad alternare l’epica alla desolazione. Alcuni dei momenti musicali più potenti sono anche i più poveri di strumenti. Una voce sola. La musica allora passa da grido tumultuoso a lamento funebre. C’è una frase che dice Erwin Smith, ed è una delle più dure: “Abbiamo vissuto la nostra vita senza sapere nulla. Non siamo nemmeno stati padroni delle nostre scelte.”
La musica in Attack on Titan prende questa verità e la porta all’estremo. Ma non lo fa per pietà. Lo fa, piuttosto, per ricordarci che anche se il mondo è contro di te, possiamo sempre scegliere. Anche quando sembra inutile e abbiamo paura.