Tokyo Revengers sta recentemente spopolando: in Giappone, ormai da un anno a questa parte, è sempre tra le prime 5 posizioni dei manga più venduti nel paese. L’anime, che si è concluso lo scorso settembre, ci ha conquistati con un gioco chiaroscurale di sentimenti, novità, speranza e disperazione che viaggiano insieme sulle linee del tempo. Merito soprattutto dei personaggi: tutti veri, con difetti e pregi, capaci di perdersi nonostante il loro buon cuore. E poi pone l’accento sull’affascinante effetto farfalla: si dice che il battito d’ali di una farfalla può provocare uno tsunami dall’altra parte del mondo. Azioni insignificanti diventano così determinanti, fondamentali per gli eventi futuri. Un solo cambiamento, una piccola variazione e il futuro può cambiare: momenti tutti concatenati gli uni agli altri, protagonisti che si affrettano per stare al passo con l’effetto domino e impedire che il peggio possa avverarsi.
Altro punto di forza di Tokyo Revengers è l’ambientazione: siamo nel Giappone del 2005 e la Tokyo Manji Gang non è che una banda di teppistelli in moto che vuole dominare la capitale, espandendosi. Rissa tra bande, giovani in moto che sfrecciano e combattono all’ultimo sangue, alcuni con un nobile codice morale e di condotta, altri per puro sfoggio di violenza e supremazia. Nel 2017 la stessa Tokyo Manji Gang, da semplice gang di ragazzini è invischiata in affari loschi e criminali.
Potrebbe tutto sembrare un’esagerazione, se non fosse che tutto questo era molto frequente in Giappone. E che la storia della Toman prende spunto da una storia vera: il passato dell’autore Ken Wakui, che nei primi anni 2000 è stato membro di una gang. Il mangaka ha rivelato di non esser stato un “bravo ragazzo” e di essere anche stato sospeso da scuola per un interno mese per cattiva condotta. “Il punto di partenza è venuto dal mio editore, voleva leggere una storia sugli Yankii. Questo mi interessava, ma non avevo idea di come fossero oggi. È così che mi è venuta l’idea del viaggio nel tempo, così da poter descrivere com’erano gli Yankii nei primi anni 2000, quando ero uno di loro.” ha rivelato Wakui durante un’intervista nel 2019. “Far parte di una gang, ai miei tempi, era una moda. Se ci buttavamo in una rissa era contro altre bande, non contro i civili: siamo rimasti sempre rispettosi”.
La gang di cui faceva parte era la Black Emperor, una delle più grandi del suo tempo. E il simbolo era proprio il Manji (lo stesso della Toman di Tokyo Revengers): purtroppo in Europa viene associato al nazismo, ma nella cultura orientale è un simbolo di pace e buon auspicio. Spesso situato in corrispondenza di santuari buddisti e luoghi di culto, viene anche chiamato “le impronte di Buddha”.
Ma come e quando sono nate le bande di motociclisti? E quali sono le differenze tre di loro?
Fin dagli anni ’50, si è diffusa nello stato nipponico la moda del Kaminarizoku: i giovani erano soliti fare gare di velocità con le moto, togliendone il silenziatore e provocando così un gran rumore per le strade. Da qui il nome: kaminari significa tuono. Al tempo però le moto erano un bene di lusso che pochi potevano permettersi, per cui prendevano parte alle sfide solo giovani di famiglie benestanti. A lungo andare il fenomeno coinvolse anche parte della popolazione che, incuriosita, assisteva sempre più numerosa alle gare ad alta velocità di moto e auto. Il termine Bosozoku “tribù della velocità sfrenata“, venne coniato dai media intorno agli anni ’70 quando questa sotto-cultura raggiunse ormai grande risonanza, finendo per coinvolgere in risse anche civili. I giovani scorrazzano per le città e le vie di periferia in sella alle loro moto, spesso accessoriate e ritoccate illegalmente, provocando scompiglio e disturbando la quiete pubblica.
Le moto ormai erano accessibili per i ragazzi di vari estrazioni sociali che formarono queste bande come forma di ribellione e denuncia del proprio disagio sociale. Erano i cosiddetti Yankii, termine giapponese che deriva dalla parola yankee, usata in America per riferirsi a persone di diverse etnie. Yankii era già usato in Giappone per riferirsi ai poveri del Kansai nel 1975, ma presto venne adattato per i giapponesi che imitavano gli americani, fino a quando venne usato per definire giovani ribelli che non seguono le regole e non conformi agli standard scolastici.
Tokyo Revengers rappresenta in modo eccelso la realtà di quegli anni. Era una vera e propria moda. Chi entrava nelle gang indossava giacche da kamikaze personalizzate (Tokko Fuku) e acconciature vistose (Panchipama). La maggior parte degli Yankii iniziava quindi a formare bande fin dai tempi delle scuole medie, scontrandosi con le altre e assoggettandole per espandersi. Negli anni ’80 si registra che in tutta la nazione vi fossero 754 gang, per un totale di 42.510 membri. Senza contare tutti i giovani Yankii in attesa di entrare in una gang di bosozoku. Ogni banda aveva il proprio codice di condotta e regole interne. Di solito, dopo i 20 anni, molti di loro si univano poi alla yakuza – la mafia giapponese – che reclutava nuove leve tra loro.
Il fenomeno è entrato in crisi sul finire degli anni ’90. Lo stato introdusse nuove leggi per porre un freno al proliferare di delinquenti, tale che nel 2011 gli affiliati erano solo 9.064. Oggi è quasi scomparso, sostituito dal gruppo Kyushakai: adolescenti e adulti appassionati di moto e auto allo stile dei bosozoku, ma senza fini delinquenziali.
Parallelamente, si diffusero tra le Yankii delle bande di motocicliste per solo ragazze: le Redisu e le Sukeban, che talvolta avevano regole più rigide.