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Flee – La Recensione in anteprima del film candidato a 3 Oscar

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Ci sono storie che non possono rimanere nascoste, così potenti e strazianti che raccontarle diventa un’esigenza per chi le vive e ascoltarle una necessità. Flee, film d’animazione danese che siamo stati invitati a vedere in anteprima e che arriverà al cinema il 10 marzo, è una di quelle storie. Candidato a ben tre premi Oscar (miglior film d’animazione, miglior documentario e miglior film internazionale), Flee è il racconto senza filtri di Amin, che ormai adulto narra per la prima volta le tragiche vicende che lo hanno portato, solo e ancora minorenne, a chiedere lo status di rifugiato in Danimarca. La storia di Amin, intervistato da uno dei suoi più cari amici – che tuttavia rimane senza nome e quasi senza volto – è quella di un bambino afghano che è nato in un paese in guerra, che è ancora nemmeno adolescente quando i talebani prendono il potere. Quando suo padre viene fatto sparire, Amin lascia il paese con la madre, le due sorelle e il fratello maggiore, senza avere la minima idea di cosa gli accadrà dal momento in cui salirà sull’aereo che li porterà a Mosca, dove il regime sovietico è appena caduto e lo stato di diritto trova poco più spazio che nell’Afghanistan distrutto dalla guerra.

La storia di Amin è estremamente personale, tanto che crescendo il bambino, il ragazzo e infine l’uomo non ha mai potuto né voluto raccontarla a nessuno, nemmeno al suo futuro marito o agli amici fraterni che in Danimarca lo hanno accolto senza mai smettere di farsi domande sulle sue origini. La decisione di rendere il racconto del protagonista tramite animazioni piuttosto che attraverso riprese canoniche è allora doppiamente funzionale: da una parte permette ad Amin di mantenere un ultimo filtro, rendendo pubblica la sua voce ma non il suo volto, dall’altra invece permette di trasformare in immagini i ricordi, mostrando al pubblico ogni momento del devastante e infinito viaggio del ragazzo e della sua famiglia verso la salvezza. Ecco allora che le animazioni diventano un potente amplificatore del racconto presentato in Flee, poiché restituiscono alla parte visiva della narrazione una potenza emotiva straordinaria, come quando i ricordi di Amin diventano troppo intensi e dolorosi per essere processati e allora anche le immagini si sbiadiscono, i volti diventano sagome, i colori scompaiono, le varie figure finiscono per confondersi. Alle preponderanti parti animate di Flee si alternano filmati di repertorio che mostrano quanto accadeva nel mondo di Amin attraverso i mezzi giornalistici dell’epoca: ci viene mostrato l’Afghanistan comunista e poi quello dei talebani, la Russia post sovietica, le tensioni internazionali e, soprattutto, la tragedia del traffico di essere umani, vero tema fondamentale del racconto del protagonista.

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Senza anticiparvi nulla di quanto raccontato lentamente da Amin, che spesso necessita di molto tempo e grande forza di volontà per rendere pubblica la storia che ha tenuto segreta per tutta la sua vita e che è diventata una parte essenziale della sua identità, possiamo rivelarvi che Flee è una denuncia personale e allo stesso universale di cosa accade quando l’animo umano viene corrotto dalla guerra e dal potere, ma anche dalla sofferenza e dalla mancanza di empatia. Il viaggio di Amin dura anni, accompagnato dalla sua famiglia prima e da solo poi, mentre i sacrifici fatti da coloro che lo amano per salvarlo iniziano a diventare per lui un peso insostenibile, tanto da determinarne ogni azione e pensiero anche una volta al sicuro in Danimarca. La vita del protagonista di Flee da adulto, mentre racconta la sua storia, sembra perfettamente normale, ha una carriera che lo vede impegnato come ricercatore in una prestigiosa università americana, ha un promesso sposo che lo ama e lo sostiene, vive apertamente la sua omosessualità che invece per anni in Afghanistan e in Russia aveva considerato contro natura. Eppure Amin vive un disagio profondo, dovuto da una parte alla paura che ha sempre avuto di raccontare la sua verità, non quella che ha raccontato alla polizia danese e nemmeno alle persone che ama, terrorizzato delle ripercussioni che avrebbe potuto avere, dall’altra alla necessità di essere all’altezza dei sacrifici fatti dalla sua famiglia per lui.

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È davanti alla telecamera del regista Jonas Poher Rasmussen che Amin riesce per la prima volta ad affrontare il trauma che ha tenuto nascosto per tutta la vita, che rappresenta la parte più importante della sua intera esistenza. Perché Flee, “fuga”, è la storia di come Amin è davvero scappato dall’Afghanistan e dalla Russia, dalla guerra, dalle discriminazioni, dai soprusi, dalla segretezza, dalla violenza emotiva e fisica vissuta durante gli anni di clandestinità e ristrettezza, mentre insieme alla madre, ai fratelli e alle sorelle ha lottato per potersi guadagnare anche un solo passaggio su una barchetta per attraversare il mare e vivere una vita che non fosse soltanto paura e isolamento.

L’animazione non rende il racconto di “Flee” meno doloroso o reale, anzi, permette di spaziare tra passato e presente con una naturalezza sconcertante, che riflette il senso di persecuzione e solitudine profonda di Amin, che non lo abbandona mai, nonostante gli anni, la distanza, l’amore della famiglia d’origine e di quella danese d’adozione composta da amici e assistenti sociali. Vediamo i ricordi scorrere sullo schermo sotto forma di immagini e musica e veniamo trascinati in un vortice di emozioni universali, tanto che capiamo inevitabilmente che il racconto che ci viene mostrato, all’apparenza così personale, è una denuncia universale delle conseguenze della repressione e della povertà, nonché dell’incapacità di comprendere e accettare coloro che vorrebbero solo essere accolti.

La combinazione tra il documentario e il film d’animazione portata in scena in Flee rappresenta un tentativo perfettamente riuscito di rendere ancora più potente ed efficace la portata della storia personale di Amin e della sua famiglia. Tematiche spesso ignorate dal piccolo e dal grande schermo come quella del traffico di esseri umani, dell‘immigrazione clandestina e delle sue conseguenze fisiche e psicologiche, dell’identità confusa di chi è costretto a scappare e deve nascondere una parte di sé, vengono rappresentate con un’immediatezza rara e le parole del protagonista sono destinate a rimanere con lo spettatore per lungo tempo, fino a cambiarne la prospettiva sul mondo.

Flee è un’opera che oggi, a oltre trent’anni dall’inizio del viaggio di Amin, è più attuale che mai, perché nel mondo esistono e resistono ogni giorno migliaia di persone che scelgono il suo stesso destino e lasciano la propria casa per sempre nella speranza di poter vivere davvero, lontano dalla fame e dalla paura. Diventa allora necessario ascoltare la storia narrata nell’opera di Jonas Poher Rasmussen perché parla direttamente a noi tutti, ricordandoci con forza del mondo che esiste al di là delle nostre vite, richiamandoci con urgenza a non voltarci dall’altra parte ma a tendere la mano, agire e comprendere. Perché la storia di Amin è solo sua, ma non è mai stata un caso isolato e non dobbiamo mai scordarcene.

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