Nell’era della sovrabbondanza di contenuti in cui ci troviamo si fa sempre più fatica a tenere il conto, non solo delle tante serie tv che vengono rilasciate ogni giorno, ogni settimana, ma anche delle piattaforme che producono e distribuiscono, ognuna con il proprio modus operandi ben distinto. Il colosso insuperabile, tranne che per qualche acciacco recente, continua a essere Netflix, ma con tutte le alternative che ci sono si ha una possibilità di scelta realmente sconfinata. Una delle piattaforme più forti degli ultimi tempi è sicuramente Apple TV+, nata soltanto nel 2019 ma capace di ritagliarsi uno spazio sempre più da protagonista. Molti motivi ci portano a pensare che ci troviamo di fronte all’anti-Netflix, e oggi vogliamo provare a spiegarvi perché.
Da HBO a Apple TV+: in televisione, chi osa, spesso ha la meglio
La storia si ripete anche in ambito televisivo. C’era un tempo in cui HBO stravolgeva per sempre il modo di fare televisione, facendo proprio il concetto di Complex Tv e attuando una vera e propria rivoluzione. Già dagli anni ’70, in America, dopo anni di dominio dei Network, cominciarono ad emergere le prime cable tv (tv via cavo), che proponevano un tipo di narrazione molto più ricercata e di nicchia, con un tornaconto economico basato sul principio di abbonamento, e che pian piano conquistò il gusto di una buona parte di pubblico e portò, a cavallo tra gli anni ’90 e 2000, a una vera e propria rivoluzione. Titoli come Sex and the City, I Soprano e The Wire, spopolarono negli Stati Uniti e permisero ad HBO di crescere in modo esponenziale continuando la propria scalata con titoli quasi sempre di impeccabile qualità, o comunque con serie tv colossali entrate per merito nella cultura popolare (basti pensare ai più recenti Game of Thrones e True Detective, tanto per citarne due “a caso”). Tutta questa rivoluzione si abbatté presto sul ciclo produttivo internazionale, con gli stessi Network che accusarono il colpo e cominciano a rivedere le proprie priorità. Ma non si è mai trattato di una gara a chi fa più ascolti, anche perché per i grandi Network, vista la differente portata di pubblico e basandosi sugli introiti pubblicitari, una reale alternativa è letteralmente impossibile. Piuttosto si è trattato, e si tratta tutt’oggi, della ricerca di un’identità ben precisa che, oltre a convincere il pubblico a sottoscrivere un abbonamento e rinnovarlo puntualmente (aspetto, ovviamente, fondamentale), serve per disegnare una linea di demarcazione tra la serialità destinata al pubblico classico, più mainstream, e quella più ricercata, non per tutti.
E fondamentalmente è proprio quello che sta accadendo ad Apple TV+ che, come tante altre piattaforme che non perdiamo tempo ad elencare, ha costruito una propria identità ben definita e sta puntando tutto sul differenziarsi da quell’offerta mainstream che riguarda un colosso ormai affermato come Netflix. In questo caso, parafrasando la storia, la piattaforma fondata da Hastings e Randolph ha assunto le sembianze dei principali broadcaster americani di un tempo, puntando molto sulla quantità e sulla volontà di abbracciare il più ampio bacino di pubblico possibile. E le differenze strategiche tra questi due colossi sono ben evidenti.
La guerra al mainstream
Il catalogo di Apple TV+ presenta titoli decisamente interessanti per questioni di appeal, sia dal punto di vista recitativo, sia più in generale per il “confezionamento” dei suoi prodotti. Titoli come Slow Horses, Gli ultimi giorni di Tolomeo Grey (di cui qui trovate la nostra impressione), la premiata ed apprezzatissima Ted Lasso, o la più recente Scissione (di cui vi parliamo qui), sono tutti esempi di una strategia forte e determinata a proporre un qualcosa di realmente innovativo e qualitativamente invitante. Si tratta di titoli che, innanzitutto, puntano molto sulla presenza di attori di razza, gente che bazzica Hollywood da parecchio, come Samuel L. Jackson o Gary Oldman, tanto per citarne un paio, e che di per sé basterebbero per convincere molti spettatori a seguire le serie. Ma è da lodare il fatto che non si tratti di prodotti trascinati da queste figure iconiche: Slow Horses non è lo show di Gay Oldman, come WeCrashed non è quello di Jared Leto. Questi nomi danno un forte contributo all’espansione globale dei prodotti, portano i media a parlarne, a studiare questo caso e a diffondere il verbo. Ma dietro a grandi attori principali ci sono sempre (in questo caso) grandi attori secondari e, soprattutto, trame avvincenti e innovative, sicuramente non per tutti, più ricercate, che indagano su temi non scontati della vita e della società attuale. Da un punto di vista strutturale, il puntare su nomi di questo calibro (quando si tratta di attori molto impegnati ad Hollywood), orienta produzione e autori a lavorare su modelli più brevi, con frequenti serie da 6 o 8 episodi che innanzitutto permettono di collaborare con tali artisti, ma che trovano sempre più il favore di un pubblico che, in un’era come quella della sovrabbondanza attuale, vede di buon occhio prodotti meno impegnativi in termini di tempistiche e che piuttosto cerca un tipo alternativo di qualità. Si potrebbe dire: brevi ma intense.
L’importanza dei generi
Un altro aspetto cruciale che accomuna Apple TV+ al modello HBO sta nella cura alla diversificazione dei generi. Quando cominciò la rivoluzione della Complex TV, HBO decise di puntare molto sull’adattamento televisivo dei più popolari generi cinematografici americani del ‘900. E lo fece alla grande con, per esempio, I Soprano, che prende a piene mani dalla sconfinata cultura del gangster movie, ma ancora con titoli come Deadwood, che pesca dall’indimenticabile era del western, The Wire e la rivisitazione del filone poliziesco, e così via. Ed è un po’ quello che sta facendo anche Apple TV+, che punta molto sulla rivisitazione di generi cinematografici popolari ben distinti, come il distopico Scissione o la spy story di Slow Horses. Proprio quest’ultimo diventa un interessante spunto di riflessione se si va a pensare che l’intera trama della serie potrebbe essere tranquillamente adattata ad un film unico, e invece viene spalmata su 6 episodi di grande intensità, da fruire attivamente, con una certa concentrazione, per non rischiare di perdere passaggi chiave.
Un’ultima riflessione che ci concediamo riguarda la comparazione tra due prodotti diametralmente opposti: da una parte Squid Game, il recente k-drama made in Netflix che certamente non ha bisogno di presentazioni, e dall’altra Dr. Brain (di cui vi parliamo qui). Il primo rappresenta l’esplosione del genere coreano in epoca recente, con una trama molto popolare, temi sociali forti ed importanti facilmente vendibili internazionalmente. Il secondo è un prodotto che ha segnato il debutto di Apple TV+ in Corea, una serie molto complessa che tratta temi sociali altrettanto forti ma decisamente più circoscritti, letteralmente riferiti all’individuo, più che alla massa. Due serie che appartengono allo stesso filone del k-drama, ma che rappresentano esattamente il modus operandi di due opposti colossi della serialità mondiale.