Non troveremo in giro serie tv tipo Atlanta. Classificata come commedia drammatica perché non esiste davvero un termine per etichettarla (e va bene così), tecnicamente è la storia di Earn Mark, brillante ex studente di Princeton, che cerca di far decollare la carriera da rapper di suo cugino Alfred, alias Paper Boi. Nel frattempo, deve occuparsi della figlia avuta dall’ex fidanzata Van, che lo ospita a casa sua mentre è in cerca di un posto dove vivere. Tre personaggi (più Darius) attorno ai quali ruotano quegli Stati Uniti che la serie tv prova a narrare, senza filtri e in maniera realistica, dal punto di vista degli afroamericani, in particolare di Earn, ma che finisce per essere qualcosa di più.
La trama è secondaria, addirittura irrilevante, perché è la vita a non essere composta da archi narrativi. E non tutto deve essere necessariamente chiarito o risolto. Infatti, è inutile spiegare la ragioni che hanno portato Paper Boi a sparare a una persona o sapere se verrà processato per questo, dato che la violenza è comune per i protagonisti, tanto veloce e improvvisa che non c’è bisogno ogni volta di approfondirla. Allo stesso modo è lasciato alla nostra interpretazione il perché l’allievo di Van, Tobias, si è colorato il volto di bianco e, con aria compiaciuta, la fissa inquietantemente. Provocazione? Scherzo? Atto politico? Tutte ipotesi valide, ma nessuna conferma.
Allora ciò che conta in Atlanta è il contesto, il momento presente, il dialogo. Soprattutto, gli escamotage che i personaggi usano per affrontare la quotidianità, con i problemi che si porta dietro.
È in primis il ritratto di un’intera generazione che ha visto infrangersi al suolo quelle promesse di vetro fatte da una società che le ha tolto tutto, che la rifiuta senza mezzi termini, che costringe i millennial – rappresentati da Earn – a una precarietà impensabile in passato. Una mente come la sua deve vivere di espedienti, deve farcela in modi non convenzionali e, purtroppo, non sempre le grandi idee sono sufficienti. E allora, dentro quelle macerie, diventa impossibile fare progetti a lungo termine e uscire da quel ghetto che, con tanta forza, lo risucchia al suo interno. Senza dargli scampo, nonostante l’istruzione, nonostante potesse davvero andarsene da quella terribile realtà.
I social potrebbero essere la via per la gloria, la ricchezza e la popolarità, ma quante insidie nascondono! Paper Boi non vuole sottomettersi alle regole di Instagram e mostrarsi dunque diverso da ciò che è; però, allo stesso tempo, è consapevole che il successo lo sta cambiando, allontanandolo dalla sua essenza e portandolo a perdersi metaforicamente e realmente in un bosco, dove uno strambo uomo ucciderà definitivamente Alfred se non trova la via d’uscita. E quando Van va a una festa per evadere solo per una sera dalle responsabilità, trova un cartonato di Drake con cui farsi una foto. Si apre, così, una potente riflessione sull’ossessione verso le celebrità, sfruttate solo per un paio di like in più, per ostentare una presunta vita di glamour e provocare così invidia nei follower.
E non importa se Drake non è realmente lì, se c’è un cartone al suo posto, basta che sui social sembri vero.
Di queste situazioni surreali Atlanta ne è piena. Il motivo è tanto semplice quanto geniale: vengono sfruttate per prendersi gioco del razzismo e affrontare importanti questioni politiche, senza risparmiare nessuno, né essere vittimista o cadere in banali stereotipi. Con un umorismo pungente e un realismo spietato, Atlanta ci fa sorridere, ci costringe alla riflessione e a chiederci se quello che stiamo guardando sta davvero accadendo sotto i nostri occhi.
Perché, nel ritrarre una parte della società, l’obiettivo primario di Atlanta è farci vedere che cosa vuole dire vivere negli Stati Uniti da afroamericani. In quella nazione dove pare esserci una frattura sociale insanabile; in quella cultura da cui emergono persone che sembrano invidiarsi e odiarsi, solo perché diversi. Succede a Paper Boi, invitato da una confraternita universitaria che espone con orgoglio la bandiera sudista. È chiaro che, per i membri, il rapper è solo una fonte di divertimento, dato che la loro ideologia non li consente di considerarlo più di quello. Eppure bianchi e neri, sudisti e afro, razzisti e non, tutti loro trovano una contraddittoria alleanza nell’amore per le armi.
Gli Stati Uniti di Atlanta sono proprio così: surrealisti e contradditori nella loro apparente democraticità.
Esemplare è il dibattito assurdo tra Paper Boi e una femminista bianca che discutono sulle discriminazioni di genere nel rap, interrotte da pubblicità razziste e da un servizio su un ragazzo nero convinto di essere bianco. C’è anche quel ricco uomo bianco così appassionato di cultura afroamericana da impostare la sua vita attorno a essa ed è inquietante perché non si può far a meno di pensare a Scappa – Get Out. Quest’ultimo poi viene omaggiato anche dal viaggio di coppia di Van ed Earn, che li porta nel tradizionale e bianchissimo Oktoberfest; lì dove si sentono a disagio e capiscono che la loro storia è giunta al termine, perché Van vorrebbe che Earn cambiasse, mentre quest’ultimo non trova giusto farlo solo per compiacere la sua compagna. E come dimenticarci del Justin Bieber nero, un egocentrico senza rispetto che davanti alle telecamere si trasforma nel ragazzo più buono al mondo.
Seppur Paper Boi viene considerato lo stereotipo di rapper criminale, in verità Bieber di colore è molto peggio. Ecco che Atlanta ci porta a ragionare sul modo diverso in cui vengono giudicati bianchi e neri (dove nessuno è esente da colpe) e su come gli stessi cantanti si percepiscono.
Se nella prima stagione c’era però una flebile luce in fondo al tunnel, nella seconda, in piena era Trump, i personaggi sono chiusi dentro un’immobilità perenne, che li fa regredire invece che evolvere.
Si percepisce la frustrazione di un Alfred che non riesce a farsi tagliare i capelli dal suo barbiere, mostrando in maniera del tutto anticonvenzionale l’uomo dietro il cantante. Sentiamo quell’ansia che può quasi essere paragonata a Walter White che cerca per un intero episodio di acchiappare una mosca. Se Van perde il lavoro, Darius si trova catapultato in un incubo nel quale nessuno vorrebbe mai trovarsi: intrappolato in una villa lussuosa dal padrone di casa, Teddy Perkins, che ancora non abbiamo capito chi fosse realmente. Ma quel personaggio racchiude molti significati: è una critica alla figura paterna; una denuncia della competitività del mondo musicale che distrugge corpo e mente pur di mantenere fama e gloria. Michael Jackson ne è l’emblema e Teddy lo ricorda davvero troppo. E la pistola che punta contro Darius trasforma quest’ultimo in ognuno di noi che cerca di capire come ha fatto a finire in una situazione simile e perché il circolo di dolore difficilmente viene interrotto.
“Non tutte le grandi cose derivano dal dolore. A volte è amore. Tuo padre avrebbe dovuto chiedere scusa… [ma] non è una ragione per ripetere sempre lo stesso schifo”.
Eppure a fermare Teddy è, ancora una volta, la violenza. Niente amore, niente speranza, solo la vittoria dell’imperscrutabile e crudele fato. E fa tremendamente paura per quanto sia reale nella sua irrealtà.
Ed Earn – sempre la voce fuori dal coro per la sua istruzione, il rifiuto della violenza e il desiderio di fare sempre la cosa giusta – preda della frustrazione per aver perso tutto quello che ama, cede al sistema che tanto aveva provato a sfidare, mettendo la pistola che si era dimenticato di togliere dallo zaino nella borsa del ragazzo vicino a lui all’aeroporto, Clark. Cede perché si è arreso all’idea che non può elevarsi al di sopra di ciò che lo circonda; crederci l’ha intrappolato in un labirinto senza via d’uscita. Da afroamericano non può permettersi di imparare dai suoi errori, perché non può compierli, e deve fare di tutto per sopravvivere.
“Questa è l’America e non devi farti beccare mentre sbagli”
Lo dice Alfred che non licenzia più Earn, riconoscendo che ha imparato quanto è difficile stare al mondo se si appartiene a una minoranza e quanto è facile fare la cosa sbagliata per salvarsi le chiappe. Ma il colpo di scena è sempre dietro l’angolo, anche in Atlanta. Clark si presenta sull’aereo annunciando che il suo manager è stato arrestato per possesso di arma da fuoco. Facendoci chiaramente capire che, ancora una volta, ha vinto il sistema e che l’unico modo per avanzare è farlo ai danni degli altri. Ed è questa la triste morale di una serie tv tanto importante quanto ingiustamente sottovalutata.