Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di Atlanta
Credo alla futura soluzione di quei due stati, in apparenza così contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà.
Ci piace pensare che André Breton, autore del manifesto del surrealismo, avrebbe amato Atlanta e avrebbe rivisto in essa un barlume del suo percorso artistico, mentre approvava senza condizioni il suo assurdo e glorioso finale. Chissà, forse avrebbe persino pensato che quei geni di Donald Glover e Salvador Dalí parlassero la stessa lingua attraverso prospettive del tutto differenti. E che il secondo avrebbe potuto riambientare la sua persistenza della memoria in un sobborgo della capitale georgiana, con una manciata di Rolex in liquefazione. In fondo, il poster promozionale della seconda stagione, quello che trovate nell’immagine di copertina, sembra per molti versi un dipinto. Un dipinto di Magritte, evaso da una tela per attraversare la realtà e impossessarsene. Una sublimazione del trompe-l’œil, al contrario: dalla tridimensionalità si passa alla bidimensionalità, in un costante capovolgimento di esperienze che svuotano i contesti reali per tracciare traiettorie tutte loro, sempre più assurde. Ma non per questo meno vere.
Tutto sommato, se si dovesse interpretare in qualche modo Atlanta, una delle serie tv più brillanti e innovative dell’ultimo decennio, potremmo fermarci qua. Interpretando, senza capire. Vivendo nella sua interezza un’esperienza unica. Oseremmo dire, sensoriale. Al di là dei sensi. Affine a quella vissuta da Darius nel criptico finale di serie, dentro uno schermo televisivo che assume la forma di una vasca in cui immergersi senza porre condizioni. Senza avere l’arroganza di poter controllare lo scorrere della narrazione, per mezzora alla settimana. Ma facendosi guidare semplicemente da quel che si prova in quel momento, senza stare a interrogarsi troppo su cosa succeda, perché succeda e che conseguenze abbia. Fino ad arrivare a un finale aperto, convenzionale nel suo essere come sempre sovversivo: un finale che rievoca Inception, ma nell’ultimo frame dei Soprano. E usa il sedere di Judge Judy come se fosse una trottola. Per farci accettare l’idea che tutto quello che abbiamo vissuto in quattro stagioni possa non esser successo davvero. Senza mai avere una risposta certa all’ovvia domanda che tutti ci siamo fatti nel momento in cui lo schermo è diventato nero. Ma in fondo il non averla rappresenta, questo sì, l’essenza di un’esperienza televisiva selvaggia, divertente e stimolante.
Ci viene ancora in supporto un maestro del surrealismo, il già citato Magritte, per esporre la lucida perfezione di un finale che solo i critici più miopi non hanno saputo valutare nel modo migliore: “Surreale è la realtà che non è stata separata dal suo mistero”.
Chi se ne frega quindi se Atlanta racconti la storia vissuta da Earn, Alfred, Vanessa e dell’improbabile Darius, sempre che siano esistiti davvero. Oppure sia stata un’esperienza distaccata dalla realtà di quest’ultimo. Non conta, non conta sul serio.
Anche perché, a detta degli autori (e non è la motivazione più significativa), il finale di Atlanta non era stato concepito originariamente per essere tale. Per un semplice motivo: Atlanta racconta una storia che non necessitava di una conclusione. Di un punto, quello sì. Ma non di un vero punto d’arrivo. Al massimo, di uno standby definitivo. In questo senso, domandarsi se sia trattato o meno di un sogno, dall’inizio alla fine, svilisce lo sforzo creativo operato nei sei anni di uno straordinario gioco che non si riduce mai al mero esercizio di stile. Questa serie nasce per divertirsi e farsi delle domande, non per offrire delle risposte. Al massimo, prende in giro chi cerca di darle.
Atlanta non è posizionabile all’interno di un genere, ma non rinuncia mai a una vena comica che si accentua sottilmente nel corso delle stagioni, trovando per strada una chiave ottimistica che all’inizio del viaggio pareva essere piuttosto imprevedibile, una nota di speranza nel buio di un’angoscia esistenziale che parimenti non si sopisce mai in alcun modo. La serie tv coraggiosamente distribuita da FX, vincitrice di due sacrosanti Emmy e due Golden Globe, non ha una trama vera e propria, si scompone costantemente, distorce situazioni, luoghi, personaggi, li fa a pezzi, li isola, lo riunisce e poi ricompone un mosaico complesso – oseremmo dire, surreale – in cui il percorso dei personaggi finisce con l’essere l’unico vero riferimento. È grottesca, illeggibile. Pura, nell’anima. Slegata da ogni possibile compromesso con tutto quello che la televisione ci aveva fin qui proposto. Comprensibile, mai. Interpretabile, talvolta. Vivibile, e basta.
Atlanta è una serie che osa, dal primo all’ultimo frame. Sperimenta, confonde, lascia senza fiato. Disorienta, al punto da vanificare ogni potenziale risposta alla prima domanda che normalmente si fa nel momento in cui ci si approccia a una nuova produzione: “di cosa parla?”. Sì, una soluzione, in teoria, ci sarebbe: Atlanta racconta la storia di quattro ragazzi afroamericani senza un soldo in tasca e tanti sogni in testa che, all’improvviso, si ritrovano immersi in una nuova vita, connessa al successo planetario di un singolo di Alfred, un rapper che si fa chiamare Paper Boi ed era stato fin lì preda dell’anonimato per poi essere, successivamente, preda della gloria musicale. Ambientata ad Atlanta (ma non solo), la città è un vero e proprio personaggio, silente. Modellato sulle esperienze di quattro protagonisti alla ricerca di un’identità più definita, solida.
Tutto qua, ma sai che noia: se davvero Atlanta fosse stata solo questo, sarebbe stata una serie tv come tante altre.
Invece no, è sempre stata molto di più: una straordinaria satira delle convenzioni e dei cliché, va ben oltre la classifica narrazione dell’universo black – troppo spesso ancorata a un linguaggio che ha appiattito le molteplici sfumature ed esperienze della verità – trovando una nuova chiave, unica e irripetibile. Ostinatamente mai retorica. brutalmente scagliata contro gli stereotipi.
Atlanta affronta un’infinità di tematiche importanti col tono scanzonato di chi ha il totale controllo su una storia che ne racconta mille altre. Alleggerisce tutto per offrire spessore ai dettagli, mai insignificanti. Cura maniacalmente tutto, senza mai perdere l’idea che la narrazione sia, prima di tutto, un gioco. Una commedia dai tratti farseschi, bizzarra come bizzarra sa essere la vita di continuo. Atlanta danza sui dialoghi, le parole e gli scambi tra quattro protagonisti che hanno trovato nel tempo un’alchimia straordinaria, palpabile, vibrante. Sui luoghi, pieni di valore, che spesso si svuotano del proprio contenuto per diventare non-luoghi, sospesi in una dimensione in cui il racconto fagocita tutto il resto. E sui silenzi, altrettanto vivibili, che accompagnano una regia originale e concreta, ma soprattutto un montaggio aggressivo, persino violento nelle sue letture più efficaci.
Atlanta, in definitiva, sembra porsi due soli obiettivi, ambiziosissimi: intrattenere e raccontare la realtà attraverso gli occhi di alcune tra le menti più brillanti che si siano messe al servizio della tv americana. Una realtà – ripetiamo – grottesca, assurda, spesso insostenibile. Imprevedibile, come imprevedibile è tutto quello che successo nelle quattro stagioni di questa bella avventura. Un’avventura in cui non ci saremmo sorpresi se, a un certo punto, uno dei protagonisti principali fosse stato schiacciato da un trattore o divorato da un cinghiale. Perché sì. Perché Atlanta è così, prendere o lasciare. In una parola, surreale. Inspiegabile, intrecciata tra un sogno vivido e un incubo paralizzante ma, allo stesso tempo, ancorata al capovolgimento di un’esigenza neorealista e a un’America, la vera America, che necessitava di esser esposta in questo modo. Così, come avrebbe fatto René Magritte, ancora lui, in uno dei suoi dipinti. Lui che si esprimeva così, a proposito del movimento che aveva abbracciato: “Essere surrealista significa bandire dalla mente il già visto e ricercare il non visto“.
Beh, no. Per niente. Affatto. Noi, in effetti, una roba come Atlanta, non l’avevamo mai vista.
Antonio Casu