“Avete mai pensato cosa potrebbe accadere se a New York si potessero utilizzare i ratti per telefonare? Come minimo ci sarebbero 5 telefoni a disposizione per ogni persona”. Bastano queste due frasi per riassumere il tono surreale e strambo di Atlanta, gioiellino creato da Donald Glover che tecnicamente racconta la vita di Earn nel tentativo di lanciare la carriera da rapper di suo cugino Alfred, alias Paper Boi.
In realtà è chiaro fin da subito che Atlanta va oltre questa banale trama.
La serie tv è il racconto di un’intera generazione che, dopo anni di promesse e di illusioni, si vede sfilare il tappeto che la società aveva posto sotto i loro piedi. Earn si fa portavoce di questi millenial, essendo un ragazzo istruito che poteva andarsene ma che viene risucchiato da una realtà che non dà scampo. E ora, senza speranze e senza mezzi, cerca di uscire dalle macerie e di rimettere insieme i pezzi attraverso gli espedienti che trova o crea.
Proprio questo interessa ad Atlanta: il momento, l’istante dei dialoghi, gli escamotage che i personaggi mettono in scena per affrontare la quotidianità. Perché nessuno di loro può permettersi progetti a lungo termine se devono pensare a come arrivare a fine mese. La trama è irrilevante perché la vita non è costruita per archi narrativi. E alcuni fatti rimangono semplicemente irrisolti. Non importa spiegare il motivo per cui Paper Boi ha sparato a una persona poiché la violenza è roba di tutti i giorni, appare e scompare improvvisamente senza aver bisogno di essere approfondita ogni volta. Nemmeno ci è dato sapere perché Tobias si è dipinto il viso di bianco, fissando Van – la madre della figlia di Earn – con aria compiaciuta. Sembra lo faccia per confondere gli insegnanti, ma l’interpretazione è lasciata nella mani del pubblico.
Così la classicità delle situazioni che Atlanta rappresenta viene ribaltata in qualcosa di nuovo, colorandosi di un surrealismo che sfuma in un’inquietudine che non se ne va.
Quel surrealismo sinistro è insito nella cultura americana, descritta come un mondo dove le persone si odiano, si invidiano, credono che il prossimo abbia rubato loro l’opportunità di arricchirsi. Succede a Paper Boi quando viene riconosciuto in un campus universitario e invitato in una confraternita che espone fieramente la bandiera sudista e la sua collezione di pistole. Per quei ragazzi il rapper è un personaggio mediatico, una fonte di divertimento ma chiaramente, per la loro ideologia, non lo considerano niente di più. Ci pensano però le armi a mettere d’accordo tutti i colori. Mostrando le contraddizioni nell’America di Trump.
Altra scena esplicativa in Atlanta è quando un collega comunica a Paper Boi che avrebbe girato uno spot pubblicitario milionario. Sebbene gli mostri rispetto, in realtà lo bolla come un venduto e a fatica nasconde l’invidia. La popolarità, del resto, è un’arma a doppio taglio. Paper Boi non vuole mostrarsi sui social diverso da com’è, ma è consapevole che la sua carriera lo sta allontanando dalla sua vera essenza, perdendosi sia metaforicamente che realmente in un bosco, dove un strano uomo lo minaccia di morte se non trova una via d’uscita. E non importa se Van o le altre ragazze alla festa si fanno la foto con un cartonato di Drake e non con il cantante in carne e ossa: la cosa fondamentale è che sembri vero sui social.
Ma proprio queste situazioni surreali al limite dell’assurdo (e sono davvero tante in Atlanta) vengono usate per prendersi gioco del razzismo e affrontare temi politici, senza risparmiare nessuno, senza essere vittimista o cadere nello stereotipo, ma sorridendo e costringendo chi guarda alla riflessione.
Basti pensare a quel dibattito paradossale tra Paper Boi e una femminista bianca sulle discriminazioni di genere nel rap, intervallate da pubblicità a sfondo razziare e da un servizio su un ragazzo di colore che afferma di essere bianco. Oppure a un ricco uomo bianco così appassionato di cultura black che imposta tutta la sua vita attorno a questo. Compare persino Justin Bieber, solo che è nero e questo cambiamento di pelle non viene mai spiegato in Atlanta. In ogni caso viene ritratto come un egocentrico irrispettoso che però davanti alle telecamere è la persona più buona e gentile al mondo. È lo stereotipo dei rapper alla Paper Boi, incorniciato come il solito gangster criminale, mentre in realtà tra i due è molto peggio Bieber afro: così Atlanta ragiona sul doppio standard di giudizio tra neri e bianchi e sul modo stesso in cui si percepiscono quei cantanti.
E poi c’è Teddy Perkins.
Un episodio spiazzante che inserisce l’horror in una serie tv non horror (come gli episodi di questo pezzo), il più sconcertante di tutti, in particolare per le domande che lascia lì senza risposta: chi è realmente Teddy? Era vero o era solo la proiezione di Benny, suo fratello? E l’identità di quell’uomo in carrozzina?
Tante sono le denunce al suo interno, tra cui la spietata critica alla figura paterna e la rappresentazione della competitività nel mondo musicale come una fame di ricchezza e successo che distrugge corpo e mente. Michael Jackson ne è un esempio, quel re del pop che Teddy Perkins ricorda davvero troppo sinistramente. Inquietante come pochi altri, danneggiato da abusi che continua a ripetere, Teddy a un certo punto punta una pistola contro Darius, che si trasforma in ogni persona che cerca di capire perché sta succedendo questo e perché il dolore conduce ad altro dolore.
“Non tutte le grandi cose derivano dal dolore. A volte è amore. Tuo padre avrebbe dovuto chiedere scusa… [ma] non è una ragione per ripetere sempre lo stesso schifo”.
Non sarà l’amore o queste parole di Darius a fermare Teddy, bensì la violenza. La speranza sparisce, il pessimismo e il fato vincono. Ed è una cosa talmente comune che fa paura.
In fondo quello che Atlanta fa, non solo con Teddy Perkins ma con il surrealismo di tutti i suoi episodi, è usare gli stereotipi come trampolino di lancio verso un racconto più poetico e profondo. È un ritratto troppo vero di quella parte della società spesso ignorata, di quanto è difficile vivere se appartieni a una minoranza, di cosa vuol dire essere neri negli Stati Uniti. Una cosa che Earn capirà alla fine della seconda stagione quando, all’aeroporto, mette la pistola che aveva accidentalmente portato con sé nello zaino di un’altra persona. I neri non possono permettersi di imparare dai loro errori e “fanno quello che devono fare per sopravvivere” perché non hanno scelta, perché come dice Al:
“Questa è l’America e non devi farti beccare mentre sbagli”.