Trovandomi per la prima volta davanti un articolo su Baby Reindeer mi sono convinta che, mettendola in play su Netflix, avrei cominciato una comedy. Una commedia classica, di quelle alle quali siamo abituati. Ammetto di essermi soffermata più sul titolo che sull’articolo, un pezzo che mi è comparso davanti nello scrolling compulsivo del social di turno. Anzi, più di tutto mi sono soffermata sull’immagine: una foto in primo piano di Martha Scott.
Non conoscevo il personaggio, ma di lì a poco mi sarebbe diventato familiare prima per tutte le altre foto che sono spuntate sul mio feed come funghi, poi cominciando e finendo la serie nel giro di 24 ore. Cosa, questa, che ha reso quel volto ancora più intensamente presente nella mia mente. Ma più leggevo articoli, più capivo che la mia prima impressione sulla serie era completamente sbagliata. E cominciandola non ho fatto altro che confermare il mio primo errore.
Di Baby Reindeer si sta parlando tanto ultimamente e credo se ne continuerà a parlare per un bel po’, con tutte le ragioni del caso.
Io, come faccio sempre appena finisco di guardare un film o una serie che mi prendono nel profondo – soprattutto quando si tratta di prodotti che in qualche modo disturbano la mia tranquillità – terminato l’episodio 7 ho prontamente ricercato Baby Reindeer su Google. Certo, qualcosa prima avevo già letto, ma sempre con un po’ di remore, tenendomi lontana dagli articoli, dai commenti e dalle recensioni che mi avrebbero spoilerato troppo della trama. Una volta finita, però, l’allerta spoiler non c’è più. Anzi, cercare online per me diventa un’interessante fonte di nuove visioni, alla ricerca di dettagli che non ho notato e interpretazioni che non ho dato. E quindi, come una qualsiasi liceale alle prese con una consegna scolastica, mi sono ritrovata per prima cosa sulla pagina di Wikipedia dedicata alla serie.
Una cosa mi è saltata subito agli occhi: nella scheda, alla sezione Genere, il primo identificato è Commedia drammatica. Subito dopo, thriller. Ormai nel mio loop di ricerca, ho cliccato sul link relativo al genere, per cercare la definizione di un concetto che a pensarci bene è più un ossimoro. E certo, anche a me hanno insegnato che Wikipedia non dà tutte le risposte ai dilemmi dell’umanità, ma mi sembra interessante riportare ugualmente ciò che ho trovato.
La commedia drammatica, o drammedia, è un tipo di commedia in cui ad una trama di argomento drammatico sono mescolati elementi del genere comico.
A parte il suono ridicolo della parola Drammedia, la definizione è semplice e contemporaneamente paradossale.
Come si può raccontare una storia drammatica, che può far male a chi la narra e a chi la ascolta, in modo comico? La domanda è balenata nella mia testa in un secondo, ma altrettanto prontamente è arrivata anche la risposta. Si può, certo che si può, e Richard Gadd (qui il racconto della storia vera) ce lo dimostra dal primo all’ultimo episodio di Baby Reindeer. Lo fa utilizzando un escamotage che avevamo già visto in una serie thriller legata alla tematica dello stalking – You – ma raccontando una storia realmente accaduta, se pure in qualche modo romanzata.
Donny, il protagonista, ci prende per mano e ci porta dritti nella sua testa.
Non guardiamo le vicende come entità esterne: è lui stesso a raccontarci cosa è successo, a far riaffiorare i ricordi di una vicenda che, si percepisce lontano un miglio, non è ancora davvero conclusa. Forse sulla carta sì, ma non nella parte più profonda di sé. Donny ci racconta la sua storia come se la stesse raccontando a dei confidenti, al tavolino di un bar o nel tepore dell’intimità casalinga.
Lo fa senza peli sulla lingua, confessandoci anche i suoi pensieri più oscuri, quelli che più di tutti lo fanno vergognare. Ma lo fa anche con un’ironia – o meglio un’autoironia – quasi dissacrante, elemento che ci aiuta a digerire ciò che stiamo sentendo e guardando ma contemporaneamente sentiamo un po’ fuori posto. Certo, è l’ironia di un comico. Anzi, due: di Donny Dunn e di Richard Gadd, colui che lo interpreta e a cui appartiene realmente la storia narrata. Ma è anche l’autoironia di chi affronta le esperienze traumatiche vissute come sa e come può. Una sorta di corazza che permette di guardare la propria vita dall’esterno, raccontandone i dettagli più intimi con l’apparente leggerezza di chi sta riportando vicende che appartengono a qualcun altro.
Ma, per l’appunto, la leggerezza in Baby Reindeer è solo apparente.
Lo è tanto quella di Donny quanto quella più in generale di una storia che, utilizzandola, ci permette di percepirne la tragicità nel profondo, fin sotto la nostra pelle. È tragica la vicenda nella sua totalità, con tutta la mancanza di empatia nei confronti di chi sta subendo una vera e propria violenza solo perché non ci si aspetta che possa prendere questa forma. È tragico il destino di chi sentendosi colpevole subisce in silenzio, così come è tragico un sistema che palesemente non funziona. E ancora, è tragica la solitudine di due persone che, nella problematicità di una vicenda come questa, si sono sentite viste l’una dall’altra. Cosa che era proprio ciò di cui entrambi avevano bisogno.
Il risultato del loro incontro non è un vaso pieno di rose e fiori, ma una vicenda che fonde legalità ed emotività con estrema forza. Una vicenda che Baby Reindeer racconta senza fronzoli, senza eccessi, senza la necessità di dover colpire per forza. Colpisce, ma lo fa nella purezza di ciò che è, nell’ottica di un realismo che non è mai esagerazione. Le armi con cui fa più male non sono jump scares, frasi fatte o il bisogno di identificare necessariamente un colpevole.
A far male sono la risata di Martha e gli sguardi persi nel vuoto di Donny.
Sono gli oggetti di scena che lui porta su un palco dal quale fa ridere poche persone e la lucidità che dimostra quando quel palco gli fa da ambientazione per un racconto ben più tragico dello spettacolo che avrebbe dovuto mettere in atto. Fa male riconoscere la difficoltà nel comprendere che la salute mentale va ben oltre i sorrisi e le lacrime delle persone, oltre le apparenze, e per quanto paradossale fa male anche vederne un racconto ben fatto, perché raro e difficile da digerire. Fa male quella penna del poliziotto che non funziona, simbolo di qualcosa di ben più grande che non va come dovrebbe.
E allora no, commedia drammatica non è un ossimoro. Arrivata alla fine di una riflessione cominciata con me stessa e terminata con voi, mi sembra la definizione più coerente che ci sia. È la realtà a essere tragicomica. Sono le vicende piccole e grandi che ogni giorno si susseguono e ci cambiano a essere drammatiche e comiche insieme. Baby Reindeer ha solo trovato la chiave giusta per raccontarle come meritano: in tutta la loro struggente verità.