Attenzione: L’articolo può contenere spoiler su Bangla.
Nelle notti più interminabili di immensi scorrimenti del foltissimo catalogo Netflix, i più temerari, che si sono spinti sino agli angoli più bui, si saranno accorti di diversi titoli che sfuggono ai più. È un po’ come un’apparizione mistica. Parte di questi intrepidi esploratori si sarà addirittura addentrata oltre, tentando persino la visione di quei contenuti che si collocano sul portale all’insaputa degli utenti comuni. Di questi titoli, spesso anche Netflix stessa finisce per dimenticarsi. Ed è proprio un po’ per caso che possono essere scovati dei veri e propri tesori celati in librerie dai confini sempre più labili. A tal proposito, lo scorso luglio ha fatto il suo arrivo sul portale streaming più gettonato d’Italia, abbastanza in sordina, la prima stagione di Bangla, la serie tv spin-off dell’omonimo film creato, diretto e interpretato da Phaim Bhuiyan.
Partendo dal principio, Bangla è un film rivelazione del 2019, prima opera del giovane Phaim Bhuiyan, classe 1995. Il lungometraggio è un racconto parzialmente autobiografico che fa della semplicità, e dell’onesta linguistica e narrativa, i propri punti di forza. Il protagonista è lo stesso Phaim, che interpreta sè stesso: un ragazzo di 22 anni, di famiglia bengalese, nato in Italia e cresciuto nel quartiere di Torpignattara a Roma. La realtà di Pahim è quella di un giovane insoddisfatto, in un quartiere multietnico, all’interno di una metropoli capace di far sentire chiunque minuscolo, parte di un tutto e, allo stesso tempo, di un universo abnorme in cui pare impossibile riscattarsi. In una vita in cui il protagonista alterna il lavoro da stewart in un museo, la passione per la musica coltivata insieme alla band formata dagli amici di sempre, e la routine religiosa, la scossa è rappresentata dall’incontro con Asia. La cotta prima, e la relazione poi, con la ragazza interpretata da Carlotta Antonelli, pongono Phaim su un bivio. La propria adesione ai dettami religiosi è messa in crisi dai vizi di una vita nella capitale e dalle pulsioni tipiche di un ventenne qualunque. Vittima della propria insicurezza, delle pressioni costanti provenienti tanto dalla società, quanto dalla tradizionalissima famiglia, il povero Phaim è messo in crisi: fatica a resistere al suo desiderio di fare sesso con la fidanzata. E i limiti che si autoinfligge hanno inevitabilmente ripercussioni sulla stabilità della coppia. Il calvario psicofisico prosegue fino al finale aperto con cui Bangla, il film, termina: Phaim deve compiere una scelta, andare a Londra con la sua famiglia, o rimanere nella sua Roma con Asia e i suoi amici.
Bangla si chiude senza una risposta esplicita. E, dopo un David di Donatello, un Nastro d’Argento e un Globo d’Oro, la commedia creata da Phaim Bhuiyan torna con una risposta.
La Rai adotta la storia di Phaim e, con una serie tv spin off pubblicata in esclusiva su RaiPlay, e andata in onda successivamente su RaiTre, finalmente scopriamo la scelta compiuta dal protagonista. La produzione composta da otto episodi si apre da dove tutto si era interrotto. Ancora una volta a Roma. Phaim è convinto che scappare a Londra gli permetta di chiudere per sempre i desideri impuri che Asia provoca in lui. Eppure è bloccato: il viaggio è annullato dai genitori, e i sentimenti per la ragazza non trovano scampo.
Bangla, nella sua versione seriale, sposta il suo focus rispetto alla pellicola. Mentre il film racconta prevalentemente il viaggio di una giovane coppia, avvicinata e ostacolata dallo stile di vita differente condotto fino a quel momento dai suoi protagonisti; lo show Rai approfondisce ancora di più la scissione intima di Phaim. Il suo limite interiore si rivela essere molto più personale che dettato dalle imposizioni religiose e familiari che vive. Pur influendo in qualche modo, questi elementi sono un capro espiatorio alla quale il protagonista si affida per raccontare all’esterno il suo rifiuto del sesso. Phaim è sommerso dall’ansia, infatti, lo vediamo comunque approcciarsi con molta meno difficoltà ad alcool e altri vizi additati dalla religione.
Quello che attanaglia maggiormente il ventenne è la paura di non essere all’altezza di una Asia già più esperta di lui, una serie di insicurezze e standard autoimposti che non giovano nè al protagonista, nè alla relazione con la ragazza. Tra gli alti e bassi continui della coppia, il microcosmo di Phaim, nel gigantesco macrocosmo romano, è raccontato con ironia e leggerezza. Il turbamento del giovane è universale. Non soltanto per il problema di tipo sessuale che lo tormenta. Anche l’insistente incertezza sul futuro professionale e personale non lasciano scampo all’equilibrio di Phaim.
Bangla, sia nella sua versione cinematografica che seriale, è un frammento intimo del diario di Phaim Bhuiyan, un tempo adolescente e oggi giovane uomo che racconta i propri drammi e le proprie emozioni con un linguaggio proprio.
Bangla è anche e primariamente una storia che pone al proprio centro l’essere un bengalese di seconda generazione in Italia, e il continuo conflitto culturale che chiunque può vivere sulla propria pelle ovunque nel mondo. L’ambientazione in una metropoli come Roma rende la storia di Phaim universalmente accessibile. Torpignattara diviene il centro del mondo perchè può essere ovunque, e nessun altro luogo se non Roma, allo stesso tempo. Bangla è un rimedio che ci fa ridere dei luoghi comuni. E’ il racconto di una generazione spesso messa da parte che, col sorriso, va oltre i pigri stereotipi. Li fa propri grazie a una prospettiva personale, autoironica e autentica, esclusiva di chi la vive sulla propria pelle.
Nonostante anche la serie tv spin off termini con un finale aperto che lascia in sospeso, ancora una volta, la relazione tra Asia e Phaim, la storia di Bangla riesce comunque a confermarsi, con questa seconda produzione, uno dei racconti più interessanti degli ultimi anni. Che sia su RaiPlay, o su Netflix, si tratta di un contenuto da recuperare, sia dai meandri dei cataloghi, che dalla propria lista di titoli da vedere. Bangla è un piccolo gioiello nostrano, alle volte validamente ricordato nella sua versione cinematografica, ma spesso non sufficientemente valorizzato, soprattutto in quella seriale. Con episodi dalla durata di meno di trenta minuti ciascuno, il racconto personale di Phaim Bhiyan è onesto, schietto, ritmato, e pieno di fragilità dalle quali farsi abbracciare.