Lo slogan che ha accompagnato uno dei film più chiacchierati e di successo del 2023 è stato: “Le Barbie possono essere, e sono, tutto, mentre i Ken sono… solo Ken”. Del resto, pure Mr. Potato in Toy Story 3 paragona Ken a un accessorio, più specificamente a una “borsetta con le gambe”. Eppure, nel rosa e frizzante film di Greta Gerwig, a prendersi la scena è proprio il fidanzato di Barbie con la sua storia e il miglior arco evolutivo dell’opera. Così permette alla pellicola di parlare con profondità tanto del mondo femminile quanto di quello maschile. E non è cosa da poco, ma procediamo con ordine.
Inizialmente, Ken ci viene presentato come una spensierata testa vuota. È un ragazzo attraente e muscoloso, un fusto abbronzato e poco intelligente che rappresenta la parte di commedia demenziale del film. Ai margini della società, il suo lavoro è letteralmente stare in spiaggia a prendere il sole e fare surf, mentre cerca disperatamente l’attenzione della sua Barbie per sentirsi validato e accrescere la sua autostima. Lui vive in funzione di lei; del resto, non esisterebbe Ken senza Barbie. In realtà, questa bidimensionalità di Ken è solo apparente e, andando avanti nel film, si scopre che racchiude in sé tantissimi significati, diventando sempre più rotondo, sempre più sfumato.
Al classico e avvincente viaggio dell’eroe di Barbie si unisce anche Ken che, arrivato nel mondo reale, scopre il patriarcato. E ha un risveglio.
Non tutto è gestito dalle donne. Anzi. Sono loro ad avere le briciole, come succede ai Ken a Barbieland. Le persone lo chiamano signore, chiedono il suo aiuto o consiglio e lo trattano con rispetto. È affascinato da questo potere e cade rapidamente sotto la sua influenza, quasi come coloro che cadono preda di sette o attivisti estremisti. Vorrebbe lavorare come medico o banchiere e si lamenta con un uomo che la sua azienda non sta facendo bene il patriarcato se lui, pur senza qualifiche, non riesce a trovare lavoro. Ma viene rassicurato dall’uomo d’affari dicendo che lo stanno eseguendo correttamente, ma devono nasconderlo meglio di prima. Allora, non potendo partecipare al patriarcato nella realtà, lo porta a Barbieland, trasformandola in Kendom.
Certo, il suo abbraccio al patriarcato è ingenuo e infantile. Poi, come potremmo aspettarci da Ken, è incentrato sui simboli esteriori della virilità e sui cliché tipici della mascolinità tossica. Ci sono grandi macchine, fiumi di birra, tanto sport e mansplaining, cataste di pellicce bianche, discorsi sul Padrino e poster di Sylvester Stallone o Arnold Schwarzenegger. Ah, non mancano i cavalli o gli orologi, questi ultimi simbolo dell’uomo impegnato. Non c’è niente di violento né di veramente sessuale, è più un gioco che una vera imposizione anche perché, quando Ken scopre che per abbattere davvero il dominio delle Barbie ci vuole molto di più che trasformare la Casa dei Sogni nella sua Mojo Dojo Casa House, perde interesse nel patriarcato. È anche vero però che l’elemento del lavaggio del cervello è spaventoso, dimostrando che le azioni di Ken sono assolutamente sbagliate. Che entrambi gli estremi lo sono.
Inoltre, non è nemmeno felice perché scopre che il machismo è una prigione ma, allo stesso tempo, non può tornare a fare lo zerbino di una Barbie che, comunque, non è riuscito a conquistare.
Ed è proprio nell’iconico numero musicale I’m Just Ken che lancia quel grido di dolore in cui canta: “Sono solo Ken, qualsiasi cosa faccia sarò sempre il numero 2”; quel lamento per l’odiata friendzone poiché: “Dove io vedo l’amore, lei vede un amico”. È una scena in cui si vede la visione limitata di Ken del patriarcato e che, pur essendo bizzarra, riesce a essere profonda, adattandosi perfettamente al messaggio del film. I Ken combattono per il gusto di farlo, senza comprendere che l’intero momento riguarda le loro insicurezze. Stanno cercando di essere qualcosa che non sono, di emulare un’idea di mascolinità vista sui media. E infatti, la battaglia è un’intelligente parodia delle estenuanti e lunghe scene di guerra o western che solitamente troviamo nei vecchi film considerati un tempo “da maschi”.
Come Barbie, Ken viene oppresso dal peso di aspettative irrealizzabili e contraddittorie. Entrambi comprendono che non sono loro a essere sbagliati, ma il difetto risiede nell’immagine del sé. Solo smettendo di aderire a quest’ultima, si emancipano dalla loro maschera sociale, facendo uscire il loro vero io. Del resto, quando Ken si guarda dentro, emerge la sua enorme paura di venir ignorato, di non possedere alcun valore e di non essere amato. In poche parole, di essere una nullità. Per questo cerca in Barbie una rassicurazione. Per questo suo disperato bisogno di attenzione compie azioni disdicevoli e ingiustificabili. Però, non ha bisogno di lei o della validazione sua e della società per essere felice. Sì, la presa di potere e la prevaricazione dell’altro di fronte al rifiuto è una pessima dinamica del mondo reale. Però, il film ci mostra un’altra e migliore via, attraverso quella collaborazione tra sessi nella conversazione a cuore aperto tra Barbie e Ken, in cui lei lo spinge a cercare la sua strada e le sue passoni.
Analizzando e prendendosi gioco delle nostre attuali norme di genere, la disperata insicurezza di Ken risulta intensa e divertente allo stesso tempo proprio perché è così in contrasto con la nostra comprensione del mondo.
Gli uomini incarnati dal Ken macho e mascolino non ricercano ossessivamente attenzioni, nemmeno da donne come Margot Robbie. È un rovesciamento di quei film “femminili” in cui la donna scopre di non necessitare di un uomo per far emergere la sua forza interiore. In questo modo Barbie ragiona, attraverso Ken, su come gli uomini possano provare disagio nel cedere potere alle donne, su cosa implichi per la loro identità e sul rivalutare i propri desideri e sé stessi al di fuori del controllo o della dipendenza dalla donna. E chi lo sa, magari Ken potrebbe essere uno dei punti di partenza per l’uguaglianza nell’importanza dei ruoli femminili e maschili al cinema. Perché se una regista donna in un film su Barbie può rendere centrale Ken, allora un collega uomo può dare la stessa importanza alle donne in generi considerati anticamente più “maschili”. È già successo sì, ma non ancora abbastanza.
Dunque, Ken attraversa un viaggio profondo e introspettivo alla scoperta di sé, aprendo gli occhi sulle proprie potenzialità e capendo che non deve rubare il libero arbitrio alle donne per essere potente, ma la felicità è nella strada che troverà al di fuori del suo rapporto con Barbie. Scoperchiato così il meccanismo, tutto diviene chiaro e Ken pronuncia una frase importantissima: “Litigavamo solo perché non sapevamo chi fossimo”. E allora, chi stava davvero litigando? Semplice: non noi, ma le nostre maschere, il nostro io spaventato, imprigionato e preda dell’ego. Liberatosi dalla prigione che ci rende malvagi ed egoisti, si torna a parlare amorevolmente con il prossimo, si può piangere e capire di essere Kenough. E soprattutto, tiriamo fuori la nostra Kenergy; un termine dai mille significati positivi e coniato proprio dall’interprete di Ken, Ryan Gosling.
E a proposto di Gosling, se Ken è così magnificamente riuscito in Barbie, è anche merito suo.
I suoi tempi comici sono esternamente naturali e c’è un elemento di tragedia greca nel suo percorso in Barbie. Oltre ad avere la battute che funzionano meglio, l’attore riesce a rappresentare ogni tipo di emozione umana, toccando tutti nel profondo. Contemporaneamente ilare e crudo, è palese come Gosling sia nato per la commedia: è fantastico ma sottoutilizzato in Crazy Stupid Love, azzecca tutti i ritmi comici in La La Land e il suo lavoro in The Nice Guys è ingiustamente sottovalutato. Però Ken, a dispetto di tutte le critiche ricevute, gli calza dannatamente a pennello. Dimostrando a tutti che la nomination all’Oscar l’ha pienamente meritata e che sì, Ken è la parte migliore di Barbie. Perché lui è abbastanza, è un 10 ed è grandioso nel fare cose. O ancora non ci credete?