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Behind The Series – Il significato dietro le scelte registiche di Better Call Saul

Better Call Saul
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Behind The Series è la rubrica di Hall of Series in cui vi raccontiamo tutto quel che c’è dietro le nostre serie tv preferite, sul piano tecnico, registico, intimistico, talvolta filosofico. Oggi è il turno di Better Call Saul.

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Niente è casuale in Better Call Saul: ogni elemento si incastra alla perfezione in un grandioso gioco di corrispondenze e rimandi. Nulla lo era, casuale, neppure in Breaking Bad, creatura prima di Vince Gilligan senza la quale non potremmo parlare di questo eccezionale spin-off. Da Breaking Bad Better Call Saul ricava molto, a partire dai giochi cromatici, dall’attenzione per il vestiario dei personaggi, iconico ma non fine a se stesso, e da alcune tecniche registiche.

Non c’è, però, solo la mano di Vince Gilligan in Better Call Saul, ma anche e soprattutto, nelle ultime stagioni, quella di Peter Gould che assume pienamente l’eredità del maestro e ne eleva la poetica, senza fronzoli e orpelli, con un solo credo: tutto ha significato. Questo articolo si propone il compito di andare dietro le quinte, scoprire il meccanismo perfetto che anima Better Call Saul, svelarne la profondità tecnica, registica, scenografica e fotografica di una serie con pochi confronti al mondo. Niente è casuale, ve lo dimostreremo.

Better Call Saul

Partiamo dagli elementi di continuità con Breaking Bad. Il deserto gillighiano torna con costanza in Better Call Saul. È il luogo liminare per eccellenza, il posto in cui puoi trovare te stesso, “Ricordare te stesso“, senza essere nessuno, “Con un cavallo senza nome“, là dove “Nessuno può farti del male“, come recita Horse With No Name, celebre canzone della soundtrack di Breaking Bad. È qui che prende avvio Breaking Bad, è qui che Saul in Better Call Saul si ritrova a vagare nella 5×09.

Ma i colori del deserto tornano prepotenti in tutta la fotografia di Better Call Saul.

Il filtro giallo viene adottato più volte nel corso degli episodi e investe in particolare la 4×07, tornando ostinatamente nei dettagli e spingendosi fino all’evidenza con una scena apparentemente oscura: Saul si sporca con il succo d’arancia che schizza dal frullatore. Il colore è un giallo privato di saturazione, innaturale. È il colore simbolo di Saul, il deserto che sta tra il bene e il male: così è Saul Goodman, a cavallo tra i due estremi, tra il blu del tailleur della prima Kim Wexler (e il verde di chi sta al di qua delle legge) e il rosso dei villain delle due serie. Dall’unione di questi colori otteniamo il giallo, il giallo ocra, desaturato e innaturale (con alta quantità di verde e rosso) di Saul Goodman.

Ma la 4×07 è anche l’occasione per soffermarci su un’altra scelta registica, tutt’altro che casuale, lo split screen. In questo episodio lo schermo si scinde in due, diviso da una netta linea nera: da un lato Kim Wexler e il suo filtro blu (blu nel colore delle pareti, nel vestito, nella tonalità dell’ambiente), dall’altro Saul, giallo e asfissiante come il deserto. I loro gesti sono simili ma antitetici: rappresentano i due volti di una stessa medaglia, anticipano quel dualismo che investerà soprattutto la quinta stagione e che ha reso maestosa questa serie.

Kim e Jim
Lo “split screen”

Divisi, opposti, eppure simmetrici i due protagonisti vengono evocati da questi colori e gesti suscitando nello spettatore insieme un’associazione e una contrapposizione visiva. Ancora una volta, insomma, l’immagine e il colore veicolano emotivamente la scena e ritraggono le personalità. Non servono parole: la comprensione avviene a un livello più profondo, visivo, subliminale, istantaneo. Questo split screen torna ancora proprio nella già citata 5×09, mostrando ancora una volta la quotidianità opposta di Kim (che beve l’acqua, solo nel nostro immaginario azzurra, nei fatti trasparente) e Saul (costretto a bere la sua urina, gialla satura, nel deserto).

Nel finale della 4×07, in particolare, accade qualcosa.

Il lato di Kim si oscura, la sua gamba oltrepassa la spessa linea nera e invade il mondo di Saul: un simbolismo che in dieci secondi netti sintetizza tutto un percorso di compromissione morale dell’avvocatessa che non basterebbero intere pagine a esprimere altrettanto degnamente. Lo stesso movimento si ripete nella 5×09 andando così a ribadire la scelta di Kim, la conferma della sua discesa nel wild side di Saul.

Una decisione che la telecamera ci ribadisce ossessivamente, ancora e ancora. È sempre nella 5×09 che un’altra scelta tecnica si fa messaggio profondo. Il soft focus, una voluta e accentuata sfocatura, porta in secondo piano ciò che prima era messo in mostra e permette di concentrarsi su un nuovo dettaglio: è il tappo della tequila Zafiro Añejo, il “trofeo” (quasi come quello di un serial killer), della truffa messa in atto nei panni di Giselle.

Zafiro-Anejo
Il tappo dello Zafiro Añejo

Lo stesso soft focus introduceva il ritorno di Gustavo Fring nella 3×02 di Better Call Saul, creando così un senso di crescente tensione man mano che la figura sfocata che spazzava sullo sfondo si rivelava essere il pericoloso criminale. La tecnica torna nella 4×08, ancora con Kim protagonista, ancora con il tappo della tequila: Kim lo passa tra le dita, ne rievoca l’ebbrezza, l’eccitazione provata durante la truffa e sfuma in secondo piano immergendosi (e immergendoci) interamente in quel tappo, in quel ricordo.

C’è questa ossessione costante nella regia di Better Call Saul.

Asfissiante, martellante, come uno slogan che mira a catturare l’attenzione dello spettatore, come lo zio Sam nel famoso manifesto di arruolamento della U.S. Army (replicato ossessivamente, nella variante di un manifesto per il prestito di guerra che tappezzava le città italiane nel 1917), Vince Gilligan e Peter Gould puntano il dito contro di noi. Ci parlano personalmente: lo fanno attraverso primi piani stretti, carichi di tensione, ingombranti.

È quanto avviene, per esempio, con la scritta “Exit“, più volte presagio inquietante e ricorrente nella terza e quarta stagione, compulsivamente riproposta in tantissime scene fino a raggiungere il culime nella 3×05 quando lo scacco matto impartito da Jimmy al fratello chiude l’episodio con il primo piano dell’insegna e il soft focus di un Chuck vinto e inebetito. Il simbolo dell’uscita di scena del personaggio ma anche una via di uscita che sempre più si allontana nella season 4 per Jimmy e Kim.

Better Call Saul
Soft focus della scritta Exit

La stessa ossessione alimenta la tecnica del Point Of View, una scelta onnipresente in Better Call Saul, mutuata da Breaking Bad, e consistente in inquadrature strette, in soggettiva. Spesso questa soggettiva nelle due serie prende le mosse da oggetti ed elementi inconsueti: l’interno di un sacchetto, una centrifuga, una parete di vetro. Nella 4×05 l’ingegnere Ziegler è condotto fino al luogo in cui lavorerà, incappucciato: abbiamo l’oscurità della sua soggettiva, carica di ansia, tensione e incertezza.

Il POV (Point Of View) permette qui di evocare un’emotività che altrimenti ci sarebbe preclusa.

Calandoci nella prospettiva del soggetto diventiamo parte delle sue sensazioni, in un istante ci tuffiamo nella scena. Ma quando questa tecnica riguarda oggetti inanimati? Nello stesso episodio il POV viene utilizzato anche nel bagagliaio di Saul, mentre sta spacciando telefoni usa e getta col sottofondo di Street Life di Randy Crawford (canzone già in Jackie Brown di Quentin Tarantino, altro virtuoso dei Point of View).

In questo caso non è il soggetto della prospettiva ad assumere rilievo ma l’oggetto: Saul è scrutato da ogni angolazione, con un gusto virtuosistico, certo, ma anche con quell’ossessiva volontà di scavare nella sua psiche, nelle pieghe più impercettibili delle sue espressioni facciali.

Gene
POV dal sacchetto

È per questo che l’uso del POV si accentua nelle scene in bianco e nero, laddove abbiamo di fronte Gene (un Saul ormai relegato a una vita anonima con una mediocre identità alternativa) di cui conosciamo poco o nulla. La telecamera esprime così il nostro morboso desiderio di saperne di più su di lui, di capire cosa prova, cosa ha intenzione di fare, quale sarà il suo destino finale.

E allora, come dei paparazzi instancabili, lo sorprendiamo da dentro il sacchetto del suo pranzo, dal macchinario che produce l’impasto dei cinnamon o ancora dallo schermo di una televisione. Siamo occhi avidi, cimici nascoste pronte ad alimentare le paranoie di Saul-Gene di essere stato scoperto: sì, perché in alcuni momenti il protagonista di Better Call Saul sembra quasi reagire a questi POV, come se percepisse l’osservatore e ne fosse spaventato.

In un colpo solo, così, la regia ci cala nella scena, ci fa interagire col personaggio e ne alimenta le angosce più segrete.

Molto più che semplice virtuosismo. Senza dimenticare che il tutto avviene nel bianco e nero che è assenza di colore, grigiore, espressione di una vita ormai naufragata e in cui Jimmy non si riconosce più.

La stessa scrupolosa attenzione registica emerge anche in tutti quei dettagli su cui la telecamera, stancamente, prolunga la sua osservazione, come il già citato tappo della tequila ma anche l’anello che Saul porta al dito, ricordo dell’amico Marco e delle truffe nelle vesti di Slippin’ Jimmy. Come fa Kim con il tappo, anche Saul, soprattutto nelle prime stagioni, prima di completare la sua metamorfosi, passa e ripassa tra le dita quell’anello, lo tocca, “rianima” il passato truffaldino spingendosi sempre più verso scelte compromettenti.

Better Call Saul

Come era stato il cappello di Walter White, maschera supermaniana che di colpo tramutava il professore in Heisenberg, così l’anello trasforma Jimmy in Saul e il tappo rende Kim Giselle. Anche gli oggetti parlano in Better Call Saul, talismani che risvegliano spiriti sopiti. È una soggettiva totalizzante quella davanti alla quale ci troviamo. Tutta la realtà è di fatto deformata dai protagonisti, piegata alle loro scelte: i colori, le musiche, le tecniche registiche e perfino gli abiti.

Sì, perché non c’è casualità neanche nel vestiario.

Se di Kim abbiamo già detto che la predominanza del blu evoca il suo essere ancora al di qua della legge, in Jimmy la trasformazione in Saul si concretizza nella scelta di un abbigliamento preciso: le scarpe finto-Gucci, di bassa qualità (le fibbie sono incollate con l’adesivo), gli abiti larghi e altrettanto scadenti evocano l’essenza dell’avvocato saltimbanco, del bus-bench lawyer, il legale che trovi affisso nelle pubblicità delle panchine degli autobus, a basso costo e pronto a qualunque scorciatoia.

Dietro Better Call Saul, dietro il virtuosismo registico si nasconde, insomma, tutta la profondità di una serie che ci parla a un livello emotivo, colpendo direttamente al subconscio: non c’è una resa intellettualistica, non si tratta di un simbolismo aulico che può essere colto solo dall’occhio attento ed educato. No, c’è l’immediatezza, la potenza immaginifica della fotografia, dei suoni, dei colori che ci restituiscono pienamente lo sguardo ora del regista ora del soggetto della ripresa. Un magnifico, impeccabile meccanismo che ci coinvolge in prima persona agendo senza farcelo notare. È questa la profondità dietro Better Call Saul. Behind The Series.

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