C’è stato un tempo. Un tempo in cui Chuck faceva da garante per Jim. Lo presentava alla commissione, lo introduceva all’avvocatura. Un attimo, un istante appena in cui era orgoglioso di suo fratello. Ma anche là, anche allora, prendendo il microfono in mano, monopolizzava l’attenzione. Ha sempre oscurato suo fratello, Chuck. L’ha sempre fatto. Di fronte a lui Jimmy non era nulla. La voce di Chuck finiva sempre per sovrastarlo. Better Call Saul, finale di stagione. Chi è Saul Goodman?
Vincitori e vinti. Non c’è via di mezzo, non c’è compromesso. Jimmy ha scelto tanto tempo fa. Ha scelto quando era solo un ragazzo e un truffatore l’ha messo di fronte alla sua personale verità. “Al mondo ci sono lupi e pecore, ragazzo. Lupi e pecore. Decidi tu cosa vuoi diventare”. Jimmy ha scelto in quel momento. Sottraendo i soldi dalla cassa del padre ha deciso di essere un lupo, un vincitore. A tutti i costi.
Eppure, c’è stato un momento in cui non era ancora nulla. In cui tutto era possibile e la redenzione sarebbe potuta avvenire. In quel momento, quella sera con Chuck al karaoke, Jimmy è bianco. Bianco come i palloncini che si alternano a quelli blu. Al blu di Chuck. Al blu che è “Il colore di chi sta al di qua della Legge” (qui la spiegazione dei colori in Better Call Saul). Ma cos’è allora il bianco? È assenza di colore, il neutro di chi può ancora essere qualunque cosa. Jimmy sceglierà di diventare giallo, di cavalcare le due sponde della legalità e dell’illegalità. Sceglierà di essere Saul Goodman, prima ancora di diventarlo.
Vincitore di un mondo che lo voleva vinto. Lotterà, si imporrà con ogni mezzo, a vantaggio di chiunque.
A danno di Chuck, Howard e chiunque lo voglia tenere a distanza. Jimmy McGill è un outsider, uno straniero in un mondo che non gli appartiene. James McGill è quella persona che lui stesso descrive alla ragazza esclusa dalla borsa di studio. “Per quanto li riguarda il tuo sbaglio è essere quello che sei”. Per loro sarà sempre un truffatore così come la studentessa una ladra.
“Esposito è la taccheggiatrice?”, domanda un’avvocatessa della commissione quando Jimmy prova a far cambiare idea ai colleghi. Taccheggiatrice. Marchiata per l’eternità. Ma “Questo non importa, non fa niente perché tu di quelli non hai bisogno”. “Te la caverai da sola. Tu farai tutto quel che è necessario fare, mi hai capito? Tu non seguirai le regole”. “Farai quello che loro non fanno. Sarai scaltra, prenderai delle scorciatoie e così tu vincerai”.
Jimmy agisce proprio così. Ce ne accorgiamo già nella prima stagione di Better Call Saul, quando riesce a ritrovare i Kettleman. Quando arriva là dove l’impeccabile Howard non sarebbe mai arrivato. “Chiedetevi questo. Chi vi ha trovati? Non vedo Howard Hamlin quassù a rovinarsi i suoi mocassini da trecento dollari”. Così fa pure, assunto alla Davis & Main. Non rimane nei ranghi, diventa ingestibile. Vince ma a modo suo. Jimmy è un outsider. È escluso ma non potrebbe essere diversamente. Perché è lui stesso, con i suoi modi, a escludersi.
In costante balia di ciò che vorrebbe essere e di ciò che è, James soffre.
Alle sue spalle campeggia l’immagine opprimente del fratello. Campeggia un ideale che non potrà (né vorrà) mai raggiungere. Sembra trionfare Chuck, anche da morto. Vincitori e vinti, nient’altro. Il vincitore prende tutto. E quel “tutto” si combatte nell’arena di un’aula di tribunale. In quell’aula che aveva consacrato Jimmy all’avvocatura per la prima volta. Nell’aula che lo ha visto prevalere sul fratello. Là si combatte pure la lotta finale. La possibilità di Jimmy di essere riabilitato alla professione.
In quell’aula ci sono due estremi. C’è il fantasma di Chuck e della sua morale intransigente. E c’è Jimmy. C’è il compromesso di chi è scaltro e prende scorciatoie. Di chi è disposto a tutto per vincere. Ma come fare? Come ottenere il successo? Kim è lì. Anche lei vive nel compromesso. Vive nel raggiro che ha abbracciato per amore. Spera che quella ambiguità che si annida nel suo Jimmy sia gestibile, canalizzabile.
Kim si veste di giallo, quel giallo che, come più volte ripetuto, è il colore del contraddittorio James McGill. Studia con l’amato la scorciatoia per vincere, per “prendere tutto”. Ma non sembra esserci possibilità perché “Posso dire quello che mi pare ma per la commissione resto un fasullo”. Non può cambiare la sua immagine di outsider, il pregiudizio nei suoi confronti. Ma allora che fare?
Sulla scena accade qualcosa.
Davanti alla commissione Jimmy viene posseduto. In un flusso di straordinario trasporto e indicibile sociopatia ecco apparire una figura. Un manipolatore, un truffatore. Un geniale con-man. Un lupo. “Al mondo ci sono lupi e pecore, ragazzo. Lupi e pecore. Decidi tu cosa vuoi diventare”. Lupi e pecore. Vincitori e vinti. D’improvviso, in un lampo inatteso, la soluzione appare la più semplice. Non può essere se stesso perché la commissione non può accettarlo per com’è. Non può fingere perché se ne coglierebbe l’ipocrisia.
La soluzione è svuotarsi di sé. Tornare bianco, neutro. Si può essere qualunque cosa se non si è nulla. Jimmy muore. Non esiste più. Scompare abbattuto dalla maschera. Quella maschera si impossessa di lui, lo svuota nel didentro e lo rende semplicemente “nulla”. La figura che si genera appare credibile, ora, agli avvocati perché non c’è più finzione. Non c’è più retorica. La maschera riempie se stessa di un ruolo. Il ruolo del fratello afflitto. Lo diventa, un fratello afflitto. Ci crede anche lui. Autoproduce in sé un’emozione autentica, manipola se stesso prima che gli altri. In un certo senso quella che dice è la verità. Lo è, per la maschera. Lo è per una parte di sé.
Vince. Quella figura vince. Esce dall’aula in trionfo. La scritta Exit alle sue spalle diventa verde, segnando la via d’uscita finalmente raggiunta. Chi vince prende tutto. Prende tutto. “The loser standing small beside the victory”. “Lo sconfitto è fermo, piccolo, accanto alla vittoria”. Là è Kim, l’altra grande sconfitta. Lei che vedeva del buono in Jimmy ora deve arrendersi alla verità che si rivela ai suoi occhi.
Jimmy è morto. Non c’è più.
La resa italiana delle ultime parole in questo episodio di Better Call Saul compromette tutto. Cari lettori, abbandonate il doppiaggio. Fatelo in quei tre minuti finali. Assistete alla maschera che emerge. Al vuoto di chi non è più nulla se non l’ombra di se stesso. Davanti a voi c’è una “persona” (in latino col significato di “maschera”) trasfigurata che gesticola in modo teatrale. Che usa uno slang confidenziale. Che si rivolge alle donne in maniera vagamente sessista (“sweetheart”, espunto dalla traduzione italiana). Jimmy è morto. Davanti a noi “It’s all good, man!”.
Saul Goodman è il vuoto. Il vuoto di qualcuno che un tempo viveva una sofferenza interiore, scisso tra due mondi. Saul Goodman è la risoluzione finale. La vittoria del lupo sulla pecora. La rinuncia all’umanità in nome di un istinto brutale. Di un impulso all’affermazione. Lo stesso impulso che aveva avuto il sopravvento su Walter White.
La felicità, sembra dirci Better Call Saul, non fa parte dell’uomo. L’uomo è un’aporia, eternamente in balia di un’ideale irraggiungibile di moralità e la brutale concretezza dei suoi fallimenti. La felicità sta nella naturalezza ferina di chi rinuncia a voler essere angelo per farsi animale, inseguendo i suoi istinti. La felicità è nell’annullamento di una parte di sé e nell’affermazione violenta di un’altra parte. Là, in quella maschera, non c’è più moralità. Jimmy non soffre più. C’è solo Saul Goodman. C’è solo il nulla.