Li avevamo lasciati nel deserto nella scorsa recensione di Better Call Saul: l’aviatore e il piccolo principe, Vince Gilligan e Saul Goodman. E ora li ritroviamo lì, in quello spazio che è vita e morte, terra di nessuno.
Terra brulla, terra arida, terra dura. Aria asfissiante, sole cocente. E poi la vita. La vita nel deserto c’è ma è una vita nascosta. Una vita sotteranea che sfugge all’inospitalità del luogo e grida con orgoglio la propria resistenza. Una vita che si afferma nonostante le avversità. Il deserto è il luogo in cui a sopravvivere non è il più forte ma chi sa sopportare meglio.
Lontano dalla città, dal frastuono e dalla serrata vita dell’uomo, dalle brulicanti formiche che si gettano su abbondanti avanzi, c’è il silenzio e la morte. La vita sorniona e il lento incedere del giorno che fa spazio dolcemente alla notte. In questa terra di nessuno ognuno è ogni cosa e l’uomo è un ospite fugace. Il deserto è il luogo al confine di due mondi. In quello spazio dimenticato da Dio, l’illegalità e la legalità si incontrano e scontrano. Ma solo per un instante, solo per un attimo effimero.
Là c’è Hank e Walter White.
C’è la DEA e il Cartello. Un camper a squarciare l’orizzonte. E poi Gus, Tuco, i Salamanca e la variegata umanità di criminali e onesti. Ma solo per un istante, solo il tempo di un incontro informale, di uno scontro. Chi si trattiene di più rischia la vita. Il deserto non è terra di legge né di criminalità. Non è di nessuno. E a sopravvivere non sono i potenti che anzi cadono in rovina, nelle sabbie che accolgono e divorano la gloria passata dei re di tutti i re.
Nella sabbia, non lungi di là,
Mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte,
E le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità
Così recita Ozymandias, sonetto di Percy Shelley che dà il titolo a uno degli episodi più intensi e dolorosi di Breaking Bad. Gilligan torna ora in Better Call Saul, come allora, nel suo deserto, in quello spazio di confine che l’ha sempre fatalmente affascinato. Il suo occhio si sofferma sui fugaci resti di presenze umane ma soprattutto sulla indolente vita animale: il ragno che, paziente e mogio, ha fatto di quel deserto la sua tana. È lui uno dei tanti esseri che si nascondono dietro l’apparenza brulla del paesaggio.
Un altro animaletto si sottrae allo sguardo. Sfugge al predatore, a quello stesso ragno. È inviso ai potenti ma unico nella sua resilienza. In Better Call Saul lo abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, ogni giorno di più abbiamo assistito alla sua comparsa. Ha aspettato, paziente, che la bufera passasse per venire alla luce. Si tratta di uno scarafaggio del deserto, una cucaracha, come la chiama in spagnolo Lalo. “Il tuo uomo è come la cucaracha. Un sopravvissuto nato“, dice a Kim.
Saul Goodman è quello scarafaggio.
Quell’essere capace di riadattarsi costantemente, di resistere con ostinata tenacia. Scarafaggio, così lo definiva lo stesso Vince Gilligan ai tempi di Breaking Bad:
Ha qualcosa dello scarafaggio. Non in senso morale, anche se può sembrare a volte, ma nel senso che ti dà l’idea di uno che sopravviverà in ogni caso. Non importa quale olocausto nucleare o piaga si dovesse manifestare, questo personaggio finirebbe per ricomparire alla luce del sole anche quando tutti gli altri fossero morti.
Saul è un testardo solitario, uno scarafaggio che beve la brina e si alimenta di carcasse ed escrementi. Ignorato, calpestato, insignificante all’apparenza. Ma sempre lì. Se il mondo attorno a lui collassa, se tutti sono attraversati da dubbi, cedimenti, errori, Saul continua ad abitare il suo deserto personale. Cade Gus, cadrà Mike, cade anche Walter White: non Saul Goodman che in quel futuro in bianco e nero è solo uno scarafaggio nascosto, in attesa che passi la tempesta.
Attraversare il deserto aveva significato per Walter White mettersi a nudo con sé stesso.
“Nel deserto puoi ricordare il tuo nome“, come recita A Horse with No Name, canzone d’apertura che dà il titolo alla 3×02 di Breaking Bad. Quella terra di mezzo svuota l’uomo dai preconcetti e dal giudizio degli altri perché “Non c’è nessuno che possa darti sofferenza“. Sei solo con te stesso, con il vero te e non con il riflesso di quello che vedono gli altri.
Saul scende in quel deserto, decide di farsi corriere (bagman) tra due mondi. Varca la legalità e si incontra con la criminalità. Si umilia a portantino per denaro ma, più che per questo, perché vuole sentire di poterlo fare, di non avere limiti. E così il deserto, ostile e intransigente con ogni suo abitante, lo accoglie. L’attimo di un incontro si trasforma nell’errante peregrinare di due dispersi.
In quel compagno di sventura Saul rivede suo fratello, lo spauracchio più grande. Nell’istante di un momento appare Chuck che lo giudica e condanna. Ma Mike non è Chuck, è tutto l’opposto. Ligio alla legalità l’uno, criminale l’altro, strenuo oppositore di Saul il primo, salvatore il secondo. È, anzi, proprio per i suoi familiari che Mike fa quello che sa fare meglio: il criminale (“Faccio quello che faccio per dar loro una vita migliore“).
Il deserto mette Saul di fronte a un fantasma che svanisce alla prima alba.
È sempre il deserto a costringerlo a bere l’urina di cui ha riempito, con uno sfregio, la tazza della Davis & Main, mentre il ben più caro travel mug regalatogli da Kim è trapassato da un proiettile e reso inutile. Sempre il deserto gli chiede l’ultimo sacrificio: divenire lui stesso suo fratello, calarsi sotto quella coperta termica che per un attimo diventa la sua unica, irrazionale protezione da una macchina lanciata in corsa e dal suo imprevedibile sbandare.
E così Saul si riempie e svuota di tutto, diventa nulla nel deserto ritrovando la paziente sopportazione dello scarafaggio, di quell’essere tanto bistrattato eppure così tenace. Ora lo scarafaggio Saul ha ripreso a camminare mogio, insignificante ma sempre dotato di una sopportazione morale che lo può portare a essere tutto e niente. Ora che il deserto lo ha accolto, Saul non ha più paura. Saprà farsi piccolo quando serve, nascondersi davanti al pericolo e nutrirsi delle carcasse dei nemici. Paziente e resiliente, destinato a sopravvivere anche alla fine del mondo. Anche alla fine dell’amata Kim.