Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Breaking Bad e la 6×12 di Better Call Saul
“Mi fidavo di te”.
Poche, semplici parole. Quattro parole, un intero mondo. La descrizione di un istante straziante, nel crocevia tra la vita e morte. E la definizione di una delle personalità più complesse mai viste sul piccolo schermo, la figura pirandelliana di Jimmy McGill, tramutatasi in un mostro per soffocare l’insofferente fragilità di un uomo che avrebbe avuto bisogno negli anni di un elemento basico ed essenziale: fiducia. Quella che Marion, la donna che per poco non è stata sacrificata nel dodicesimo episodio dell’ultima stagione di Better Call Saul per sovrapporre una volta per tutte la sua figura a quella di Walter White, gli aveva dato incondizionatamente. Ingannata dal maestro degli inganni, l’anziana donna gli aveva aperto le porte di casa e l’aveva accolto come se fosse un figlio. Gli aveva voluto bene, s’era appoggiata a lui: s’era fidata di uno sconosciuto, nonostante tutto. E lui, in cambio, è arrivato a un passo dallo strangolarla per sfuggire alla sconfitta un giorno ancora, nutrirsi delle sue dipendenze e sentirsi ancora vivo pur essendo ormai morto da tempo. A un passo, prima delle ultime parole di Marion: “Mi fidavo di te”.
Gene, allora, s’è fermato. E con lui Saul, sepolto in un cumulo d’abiti sgargianti. Insieme a Jimmy, nascosto chissà dove nello spirito irrequieto di un uomo senza più anima. Un’esitazione, fatale. La condanna, e con essa la salvezza: l’espressione è mutata appena, quasi impercettibilmente, per trasformare gli occhi furenti dell’omicida nello sguardo ferito di un uomo che sembra aver finalmente iniziato a fare i conti con se stesso. Gene, quindi, è fuggito via. E Jimmy con lui, consapevole che questa storia, forse, sarebbe stata scritta diversamente se il mondo gli avesse dato maggiore fiducia. E non si sarebbe mai ritrovato in quella brutale situazione, nella desolata Omaha.
In fondo, è sempre stata una questione di fiducia. E non è un caso che la potenziale epifania di Gene, il cui primo omicidio avrebbe ricalcato anche nelle modalità il momento in cui Walter White strangolò Krazy-8, sia arrivata nel momento in cui Marion ha fatto riferimento alla fiducia. La stessa alla quale s’appoggia costantemente un qualunque avvocato per poter svolgere il proprio lavoro nel modo più credibile possibile. Non a caso slogan del primo Jimmy McGill, “un avvocato di cui potete fidarvi”, e di un legale che aveva basato sull’intimo rapporto di fiducia con una clientela piuttosto anziana e indifesa un’importante fase di sviluppo della sua carriera. Jimmy, d’altronde, non era solo un avvocato che si occupava di gestire testamenti o altro: era prima di tutto un figlio, un nipote. E per certi versi lo era persino genuinamente, al di là degli ovvi secondi fini che portava con sé. Jimmy si divertiva, era piuttosto appagato, stava bene. Era un vero avvocato al servizio dei più deboli.
Purtroppo, però, a Jimmy non bastava. Non si accontentava, voleva di più. E, soprattutto, voleva l’approvazione di suo fratello.
Chuck, tuttavia, non l’aveva mai accettato. Non aveva mai riconosciuto in Jimmy un collega, né aveva mai pensato che in lui potesse germogliare in qualche modo il seme del cambiamento. No: a ragione o meno, per Chuck è sempre stato Slippin’ Jimmy. Una volta laureato, uno scimpanzé armato con un mitra. Spinto anche da una notevole invidia nei suoi confronti, Chuck non era mai riuscito a vedere nel fratello l’evoluzione di un ragazzo che voleva riscattarsi e non essere più il lupo che fregava i soldi dalla cassa del padre. Jimmy ci aveva provato, ci aveva provato sul serio. A modo suo e con metodi non sempre ortodossi, ma ci aveva provato davvero. E a un certo punto, all’alba del caso Sandpiper, sembrava che anche Chuck stesse prendendo atto delle rinnovate virtù di Jimmy. Sospese al confine tra quel che è giusto e quel che non lo è, con una tendenza prevalente verso la prima direzione.
Ma era una simulazione, anche la sua. Perché no, Chuck aveva sbarrato tutte le porte, subdolamente. E non gli aveva mai dato l’opportunità di poter dimostrare quanto potesse valere: nel vedere il male che avrebbe potuto fare al prossimo, non aveva riconosciuto i tentativi di un’anima che cercava un posto nel mondo. Persino seguendo delle regole, per certi versi. Forse per sempre, forse no perché la mancanza di fiducia di Chuck non è certo l’unico fattore che ha trasformato Jimmy in quel che è poi diventato, ma quel che è sicuro è che l’avrebbe fatto in quel momento e non avremo mai la riprova di cosa sarebbe successo se il corso degli eventi avesse preso quella via. Jimmy, con ogni probabilità, avrebbe comunque assecondato la natura truffaldina, ma la totale mancanza di fiducia ha alimentato a dismisura i suoi peggiori limiti. Forse sarebbe stato ben distante dal Gene che ha quasi freddato Marion. E anche dal cinico Saul di Breaking Bad.
Una volta scoperto l’inganno di Chuck, però, Jimmy ha capito che suo fratello non si sarebbe mai fidato di lui e la profezia si è autorealizzata. In quel momento, dalle ceneri di un uomo che ha finito col distruggere, è nata la maschera che poi si sarebbe evoluta nel Saul che abbiamo imparato a conoscere. La via di fuga dalla realtà, la corsa sfrenata che fagocita ogni pensiero, l’urlo silenzioso dell’uomo solo. Nato nello stesso momento in cui aveva vissuto una situazione per certi versi sovrapponibile a quella vissuta con Marion. Nel finale della terza stagione di Better Call Saul, infatti, Jimmy si era ritrovato a organizzare un cinico piano per ottenere anticipatamente la quota a lui spettante per la risoluzione del caso Sandpiper. Per concretizzarlo, aveva messo Irene, la tenera anziana che rappresentava le vittime, contro le sue amiche. L’aveva isolata, spezzandole il cuore, per un mero tornaconto personale. Ma a un certo punto s’era fermato: nel momento in cui aveva capito di aver oltrepassato un confine morale che non intendeva superare, era tornato indietro, aveva rimediato all’errore, tolto per una volta la maschera e rinunciato all’accelerazione forzata degli eventi. Aveva esitato, come Gene ha esitato di fronte allo sguardo impietrito di Marion: la sua anima è riemersa d’un tratto, all’improvviso, per salvarlo dalle peggiori condanne. Aveva tradito la loro fiducia, e per un uomo che di fiducia da parte negli altri ne ha sempre avuto pochissima, significava fin troppo.
D’altronde, l’unica donna capace di accettarlo incondizionatamente, nel bene e nel male, nella legalità e nelle scorciatoie, era sempre stata solo una: Kim Wexler. Solo lei sapeva riconoscerlo per chi fosse davvero, accettarne i limiti ed esaltarne i pregi. Viverlo, senza mai chiedergli di essere in alcun modo nessun altro al di fuori di sé. Kim credeva in lui, si fidava di lui. Jimmy lo sapeva e la amava anche per questo. Soprattutto per questo. Perché Jimmy, con lei, poteva essere semplicemente Jimmy. Senza barriere. Con la consapevolezza che Kim credesse in lui e nel suo potenziale. E che si fidasse di lui, fino in fondo. Non è un caso che l’elemento di rottura tra i due, al di là dell’evidente tossicità che aveva avvelenato il loro rapporto fino a portarli alla tragica uccisione di Howard Hamlin, fosse stata la rottura del vincolo di fiducia che li aveva fin lì uniti: Jimmy, infatti, non ha mai smesso di soffrire per l’addio e per tutto quello che esso ha rappresentato, ma anche per il fatto che Kim avesse nascosto la verità sul destino di Lalo Salamanca e non l’avesse reso partecipe dell’enorme rischio imminente.
Jimmy, in quel momento, aveva capito che Kim non si fidasse più di lui. Come Mike non s’era fidato di lui e come nessun altro aveva fatto nel riconoscere la sua cronica inaffidabilità. Saul Goodman, costruito sulla tomba di Chuck McGill, emerge quindi una volta per tutte, ha la meglio su quel che resta di Jimmy, lo protegge attraverso un inganno e lo isola con una convinzione su tutte: se nessuno si fiderà mai di lui, lui farà da sé e costruirà un impero con le sue sole forze. Ingannando il mondo, prima che sia il mondo a ingannare lui.
Jimmy, in quel frangente, è entrato in un loop dal quale non è mai davvero uscito nemmeno nel momento in cui è stato costretto alla fuga a Omaha. Perché all’inganno di Saul si sovrapponeva sempre il ricordo dell’unica donna che gli avesse davvero dato fiducia, ed era questo a tenerlo vivo in una sospensione emotiva in cui rimandare il confronto con se stesso. Poi è arrivata quella maledetta telefonata, ogni barlume di speranza nel poter ritrovare la donna che aveva tanto amato è venuto meno e Gene si è trasformato nel mostro iroso che ha afferrato un cavo del telefono per strangolare un’anziana indifesa. Marion, però, l’ha guardato negli occhi come nessuno aveva mai fatto e Gene s’è fermato. Ha perso il respiro, l’ha ascoltata, ha capito. S’è capito, forse. Finalmente. A un passo dall’oblio, dopo aver attraversato di corsa l’inferno delle anime smarrite.
S’è fermato, e vogliamo immaginare che in quel momento gli sia scorsa davanti l’intera vita. Che abbia ripensato a Chuck, Irene, Kim, i suoi genitori. A chiunque gli abbia dato fiducia e a chi non si sia mai fidato di lui, dentro e fuori da Better Call Saul. Vogliamo immaginare che per un attimo abbia pensato alla vita che non ha vissuto, agli infiniti what if e alle sterminate sliding doors in cui ha preso sempre e solo la direzione sbagliata, anche per colpa di Chuck e di un universo che s’è fatto lupo contro il lupo. Esiliato dal sistema, estirpato come un’erba cattiva, condannato ancor prima di aver sbagliato. Vogliamo immaginare che abbia pensato a che vita avrebbe vissuto e a quanto sarebbe stato vicino alla versione più onesta di sé, in qualche modo. Chissà chi sarebbe diventato, se il mondo si fosse fidato di un uomo inaffidabile. E se lui si fosse fidato di un mondo inaffidabile. Non lo sapremo mai, ma sarebbe stato giusto provarci.
Vogliamo immaginare che forse Saul Goodman non sarebbe mai nato e Gene Takovic non sarebbe stato altro che un terribile incubo a occhi chiusi. Perché Breaking Bad e Better Call Saul non raccontano le storie di destini ineluttabili, ma di scelte e bivi affrontati consciamente nei momenti topici della vita. Responsabilità individuali, alimentate da contingenze esterne. Oppure sarebbe andata comunque così, in un altro modo. Chissà come, chissà dove. Ma quel che è certo è che Gene, il mostro, sia il figlio di una totale mancanza di fiducia nei suoi confronti. Meritata o meno che fosse, in ogni momento della sua vita. E che un uomo nuovo, chissà chi, sia nato dalle poche parole di Marion. A un passo dalla morte, mentre noi, a nostra volta, non ci sentiamo tanto bene. Noi che nonostante tutto ci fidavamo di lui, ma non abbiamo mai avuto la possibilità di farglielo capire. E di comprendere cosa avrebbe significato.
Antonio Casu