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Better Call Saul si è trasformata in una sublime gigantografia a colori

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In principio era Saul. Anzi, per la precisione, in principio era Jimmy McGill, lo spettinato avvocatuccio da 4 soldi che provava a inventarle tutte per sbarcare il lunario, sotto lo sguardo severo e schifito del fratello Chuck. Severo e schifito ma anche paradossalmente invidioso, perchè il più vecchio dei McGill dall’alto del suo innegabile intuito aveva visto molto bene il talento e il potenziale creativo della pecora nera della famiglia. E il fatto che un giorno tutto quell’uragano rischiasse di venir fuori soppiantando la fama che lui, il prescelto, si era faticosamente costruito, faceva una paura fottuta a Chuck. Gli faceva più paura dell’elettricità.

In principio, era solo questo. Better Call Saul era solo la storia del giovane e arrancante Jimmy McGill. Una storia che ci teneva incollati allo schermo solo per vedere le evoluzioni di quello che sapevamo sarebbe diventato Saul Goodman: non era niente più di questo. Non una storia monocorde, sia chiaro, il personaggio di Jimmy aveva dimostrato sin dall’inizio una prospettiva di profondità estrema, superiore a quella un po’ meno tridimensionale vista col Saul Goodman di Breaking Bad. Ma una storia basata quasi solo ed esclusivamente sul protagonista: questo sì.

C’era Jimmy, e c’erano sprazzi di Mike, coi Salamanca relegati a trama di sottofondo. E anche con pezzi di Kim e Chuck, che però potevano a ben vedere essere considerati estensioni, satelliti dell’universo legato al sarà Goodman.

Quando Better Call Saul è cominciata, avvolta in un contraddittorio mix di hype e scetticismo che tutti gli spin-off si portano appresso, figuriamoci quello di sua maestà Breaking Bad, era una serie che dipendeva ossessivamente dal suo protagonista. Ed era anche giusto così, perchè Gilligan doveva intessere la tela. Sviscerare pezzo per pezzo l’affascinante complessità del personaggio di Jimmy McGill, facendoci dimenticare poco a poco della caratterizzazione prettamente cinica e macchiettistica portata in scena durante Breaking Bad. Better Call Saul doveva farci esplorare Saul, quello vero. Doveva farci scoprire tutto quello che c’era dietro e dentro l’avvocato dei criminali. Farci entrare nella sua mente e nella sua anima, aiutandoci a capire come un pesce piccolo e sottovalutato fosse arrivato a diventare il più temuto degli squali.

Ma mentre noi scoprivamo Jimmy e bramavamo Saul, e mentre Jimmy poco a poco si evolveva in Saul, la serie stessa si trasformava impercettibilmente in qualcos’altro. Stagione dopo stagione, mentre noi eravamo impegnati ad ammirare il paesaggio emotivo e psicologico di un personaggio sempre più dominante, Vince Gilligan si preparava a catapultarci dentro uno straordinario effetto matrioska, ma col beneficio d’inventario che solo a geni come lui è concesso.

Un processo ricorsivo in cui gli elementi (e i personaggi) già visti in Breaking Bad si sono riproposti all’infinito, ma – e qua sta il beneficio d’inventario – non uguali a loro stessi, bensì diversi, elaborati a ritroso, e osservati da punti di vista che mai ci saremmo sognati.

Così d’un tratto ci siamo resi conto di essere davanti a una serie totalmente trasformata. Una serie totalmente corale. Gilligan ha attuato questo processo evolutivo in modo talmente leggiadro che nemmeno ce ne siamo accorti. Oggi Better Call Saul è qualcos’altro rispetto a quando la avevamo conosciuta. Jimmy McGill è diventato Saul Goodman ma non è ancora arrivato alla fine della sua muta: c’è ancora tanta luce nei suoi occhi, e il cinismo che contraddistingueva l’azzeccagarbugli di Breaking Bad è sviluppato e rivelato soltanto in parte. Manca ancora un po’ per arrivare al cupo e losco figuro che conoscemmo tanti anni fa.

Attorno a Saul, però, si è ricostituito il vecchio universo. E così capita che in una serie che si chiama Better Call Saul, a volte, in 50 minuti di puntata di Saul ne vediamo sì e no una quindicina. Gli isolati sprazzi di Mike, che nelle primissime fasi potevano addirittura erroneamente essere interpretati come nostalgico riempitivo, si sono trasformati in un pezzo fondamentale della storia, e quasi a se stante. La correlazione Mike-Saul è infatti sempre più sfumata, e relegata a pochissimi frangenti.

Nel frattempo è arrivato anche Gus Fring. In punta di piedi prima, correndo a spron battuto adesso. Gilligan ci ha raccontato l’evoluzione del re di Los Pollos Hermanos, trasportandoci dentro la genesi della sua strategia criminale. Approfondendo il suo rapporto con Hector Salamanca e in generale con tutto il suo clan, colmo di vecchie conoscenze – Krazy8, i cugini e altri – ma soprattutto di volti nuovi, come il temibile Lalo. Ultimamente, inoltre, si sono aggiunti alla storia anche Hank Schrader e Steve Gomez.

Ma Gilligan non si è limitato a riportare insieme la vecchia banda facendocela vedere sotto nuovi punti di vista. Ha fatto di più, ha osato di più. Perchè in questa crescita esponenziale di tutta la serie c’è anche lo sviluppo roboante di personaggi che non facevano parte dell’universo Breaking Bad. Nacho Varga, lo scagnozzo, ha preso talmente tanto spazio che ormai conosciamo anche le sue dinamiche familiari. Kim Wexler, la musa e partner in crime di Saul, è ormai slegata dal suo amato. Non più estensione di quest’ultimo, non più satellite, ma sempre più protagonista con una storyline che viaggia da sola per quanto intersecata a quella di Goodman.

In una costruzione a ritroso surrealmente perfetta, che ci ha riportati con mastodontica naturalezza anche dentro luoghi che mai avremmo pensato di rivedere – si pensi all’ultima puntata, dove Mike va a finire nel centro medico al soldo di Fring – Better Call Saul si sta ricongiungendo con Breaking Bad riuscendo nel contempo a mantenere, e anzi accrescere, anche la sua mirifica identità.

Un costrutto certosino con un piano d’azione specifico e ben delineato, in pieno stile Gilligan. Si è partiti da Jimmy e si è arrivati a tutto quello che c’è oggi, passando da un universo monomaniaco a una galassia sterminata, disseminata di stelle autosufficienti ma armonicamente connesse. Better Call Saul ha bevuto un elisir di longevità sapendosi trasformare al momento giusto, ed è anche per questo che la serie dopo ben 5 stagioni mantiene ancora una freschezza così invidiabile.

Quando è cominciata 5 anni fa eravamo pervasi da hype e scetticismo. Ora lo scetticismo lo abbiamo messo da parte, sostituito dalla consapevolezza di essere davanti a una grandissima opera. Costruita con pazienza e raziocinio, in modo patologicamente sottile. E anche se non potevamo esserne certi, in fondo dovevamo immaginarcelo che quella semplice istantanea in bianco e nero raffigurante la prima immagine della serie, qualche anno dopo si sarebbe trasformata in una sublime gigantografia a colori.

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